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4 NOVEMBRE 1966: ITALIA FERITA !!! FIRENZE E’ TRAVOLTA DA UNA CATASTROFICA ALLUVIONE. Un ’ricordo’ di Giorgio Bocca

domenica 8 ottobre 2006 di Federico La Sala
[...] Firenze ha anche una guida spirituale, il professor Giorgio La Pira, evangelico e poeta, che dice: «E così si risorge, un mattone dopo l’altro, un mattone per ciascuno senza discriminazioni. Firenze è un’isola, un esperimento nuovo, prezioso. Presto presto, tutto il mondo ora è Firenze, la Russia manda aerei carichi di aiuti, i parroci collaborano con i comunisti». Si impegna un grande laico, il professor Carlo Ludovico Ragghianti, lo storico dell’arte, che esorta uomini di cultura e (...)

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mercoledì 8 novembre 2006

Tornano a Firenze gli “angeli del fango”

Ieri a Palazzo Vecchio si sono incontrati a quarant’anni di distanza dall’alluvione le migliaia di giovani che corsero in salvo della città.

Pecoraro Scanio annuncia: in tre anni i soldi per completare la messa in sicurezza dell’Arno

di Roberta Ronconi

(Firenze nostra inviata - Liberazione, 05.11.2006)

A Firenze ieri di “angeli del fango” ne aspettavano qualche centinaio, chiamati all’appello dalla Regione e dal Comune per ritrovarsi e celebrare insieme quel giorno a quarant’anni di distanza. Ne sono arrivati quasi duemila e hanno invaso di ricordi il Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, migliaia di occhi guizzanti nella sala a frugare i volti dei vicini, a cercare lontani compagni e compagne chissà come trasformati dal tempo. Aspettando le autorità, qualcuno sale sul podio e lancia appelli dal microfono: «Quelli del 78mo reggimento dei lupi di Toscana. Vediamoci in fondo alla sala a destra!». «C’è qualcuno della sala della ventola? Vi ricordate quella stanza dove ci rifugiavamo di notte per stare al caldo? Se ci siete, raggiungetemi sotto il palco». Quaranta anni fa questo mare di uomini e donne, oggi vestiti in golfini e cappelli, formavano file e file di ragazzi impastati di fango, le calosce ai piedi e gli eskimo sulle spalle, i capelli lunghi e le mani nude a scavare negli scantinati della Biblioteca nazionale o a calarsi nei sotterranei di Palazzo Vecchio. I vecchi affacciati alle finestre li chiamavano forte, per chiedere aiuto, cibo, medicinali, acqua. E i bottegai facevano cenni agitati con le mani perché andassero lì, a rimestare con loro nell’acqua marcia infestata di cherosene e liquami di fogna, per salvare quello che si poteva di un’intera vita. Tanti non erano nemmeno maggiorenni e i vigili del fuoco, se li beccavano in situazioni pericolose, li rispedivano all’aperto, a fare da catena umana. Mano dopo mano, risalivano all’aria testi miniati, manoscritti cinquecenteschi, corazze medievali, pergamene, gioielli, dipinti del rinascimento... Il cuore di un’intera civiltà e di un’immensa cultura era stato sepolto e non c’erano che migliaia di braccia sporche a poterlo salvare. Senza acqua, senza luce, senza cibo. Solo un istinto solidale e l’entusiasmo della gioventù a combattere contro le follie della natura. Non era la prima volta che Firenze rischiava la pelle e non era la prima volta che il “torrentaccio” dava da matto. Ma una cosa così non s’era mai letta su nessun libro di storia.

Ecco, quella che poi diventò Storia, in quel momento era istinto. Sono in molti angeli a dirlo. Anzi, a ricordarlo a nome di tutti è una “mud-angel”, Susan, ragazzina londinese che si trovava a Firenze per studiare e che, invece di tornarsene di corsa a casa come la pregavano i genitori, decise di restare. «Avrei preferito rimanere nell’anonimato, anche se mi fa piacere essere qui oggi con tutti voi. Ma in quei giorni io e i miei amici, anche se avvertivamo che quello che stava accadendo sarebbe diventata una pagina di storia, facevamo semplicemente quello che era necessario fare. Ci venne spontaneo, nessuno pensava alla gloria, ma solo ad aiutare chi ne aveva bisogno e a salvare quello che si poteva di una città che amavamo e amiamo tanto, perché è la culla anche della nostra civiltà e della nostra cultura». Dopo gli appelli di Radio Londra, che all’epoca ancora esisteva e veniva ascoltata in tutta Europa e negli Stati Uniti, con la voce drammatica dello speaker che lanciava il suo appello «correte! il mondo sta per perdere una delle sue gemme più preziose!» interi licei e università e istituzioni organizzarono viaggi di giovani pronti ad arrivare a Firenze da tutto il mondo. Come quella giovanissima insegnante d’arte di Reims, l’“ange du but”Julienne che prese cinquanta dei suoi studenti, li caricò su un autobus e li portò a fare le “vacanze di natale” in mezzo alla melma. Arrivarono da New York, Philadelphia, Boston, Melbourne, Parigi, Londra, da tutta l’Italia, da tutta la Toscana. Forse diecimila, forse molti di più, chiamati dalla forza di un impulso, dalla volontà di salvare una storia comune, con radici tanto profonde da superare ogni divisione di classe, razza, lingua, età. Nessuna barriera divideva più persona da persona, improvvisamente tutti uguali, tutti uniti come non erano mai stati.

Questo il ricordo più forte, questo ciò che rende quel pezzo della vita di ciascuno di loro incancellabile. «Io partivo da Venezia dove studiavo architettura, e anche lì le acque si erano fatte pericolose - ci racconta l’angelo Sergio Staino -. Volevo raggiungere i miei, capire come stavano. Fu un viaggio di fortuna, non c’era energia elettrica e i treni si fermavano ben prima di arrivare a Firenze. Quando arrivai c’era un’atmosfera spettrale, la città era immersa nel buio e nel fango». Ma non c’era nulla che avrebbe potuto fermarli, quei ragazzi. «Avevamo imparato da poco a viaggiare, a muoverci con tutti i mezzi possibili - continua Staino -. Cominciavamo a girare per l’Europa, e credo che questo sia stato uno dei motivi per cui a Firenze arrivarono tanti giovani. Era la prima generazione ad avere consapevolezza di un’Europa terra di tutti noi, le distanze cominciavano a perdere di significato, anzi diventavano ricchezza, tempo di scoperta, dimensione di viaggio. E la spinta ideale che ci portò in massa a Firenze, la voglia di partecipazione, il senso di solidarietà, era la prima sperimentazione di ciò che poi sarebbe diventato il ’68».

Già, a guardare oggi le foto di questi uomini e donne coperti di fango, gli eskimo imbiancati dalla mota essiccata, accanto ai fiorentini, ai soldati, ai militari di leva, alle volontarie, ai pompieri, agli scout e ai prodromi della protezione civile, sembra di cogliere un passaggio di testimone. Un fotogramma preciso, di due braccia che si allungano, l’una verso l’altra, fino a sfiorarsi. Da una parte l’Italia uscita dalla guerra, con la sua tenacia di liberarsi dalla miseria e dall’orrore e dall’altra il futuro prossimo, la rivolta, l’entusiasmo, la voglia di cambiare.

Questa è stata l’alluvione di Firenze. Oltre le celebrazioni, che in fondo arrivano troppo tardi. «Perché ci incontriamo ora, che siamo tutti vecchi e vecchie, e non ci siamo incontrati trent’anni fa, quando avevamo ancora qualcosa da dire e forse ancora la forza per cambiare?», dice composto un angelo italiano. «Perché abbiamo lasciato passare tutto questo tempo e per la sicurezza dell’Arno e della città ancora non è stato fatto nulla?», gli fa eco un altro. Mancano duecento milioni di euro per finire i lavori agli argini del fiume e assicurarsi che l’Arno non faccia altri scherzi. Milioni che, assicurano i ministri presenti, saranno trovati nei prossimi tre anni.

Gli angeli non sembrano convinti. Troppo tempo è passato, quella tragedia che loro erano stati capaci di trasformare in una incredibile avventura umana ha lasciato anche qualche ferita. La storia degli esseri umani e delle loro relazioni è andata da un’altra parte. Il senso di umanità e di profonda fratellanza che per qualche mese di quel ’66 aveva contagiato tutti è forse la più grande perdita di questa nostra storia.


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