Se giudici e politici ormai pari sono
di CARLO FEDERICO GROSSO (La Stampa, 7/10/2007)
C’è analogia fra il clima politico del 1992 e quello del 2007, fra i tempi di Mani Pulite e l’antipolitica di oggi. Vi sono, tuttavia, alcune rilevanti differenze. Allora non tutto il mondo politico era travolto dall’ira popolare e c’era comunque una speranza di uscita democratica dalla degenerazione. Oggi tutti i partiti sembrano invece coinvolti nel discredito; una via d’uscita dalla crisi sembra pertanto molto più difficile. Si salvano, per il loro prestigio personale o istituzionale, talune grandi personalità, come il Capo dello Stato. Si assiste, d’altro canto, al successo popolare dell’antipolitico per eccellenza. Di quel Grillo, comico di professione, che sta cavalcando gli umori ancestrali della gente contro il potere ufficiale. Per altro verso, mentre all’epoca di Mani Pulite c’era una fiducia senza tentennamenti nel potere giudiziario e una procura della Repubblica che dettava l’agenda del Paese, oggi quella fiducia nella magistratura si è in larga misura sfrangiata. La gente è più avveduta, distingue, talvolta critica apertamente. Sicuramente non è più propensa a credere ciecamente alle iniziative giudiziarie. Al contrario, diffida della giustizia.
C’è inoltre una crisi in molti elettori di sinistra. Una parte di essi riteneva che con l’avvento del governo Prodi le tensioni fra politica e giustizia sarebbero scomparse. Alcune cose sono sicuramente cambiate: ad esempio, non ha più costituito intento dichiarato della politica porre limiti alla libertà di indagine, è cessato l’attacco sistematico al mondo giudiziario. Tuttavia, non si è giunti all’idillio. Le leggi vergogna non sono state abrogate, le risorse per il funzionamento della macchina giudiziaria non sono state reperite, il rapporto fra mondo politico e mondo giudiziario continua ad essere complicato. Lo dimostrano le iniziative e le accese discussioni di questi giorni.
Quali reazioni si sono, a loro volta, sviluppate contro l’antipolitica dilagante? C’è stato un grande agitarsi sui temi della riduzione del numero dei parlamentari, del contenimento dei consigli di amministrazione e dei consiglieri comunali e regionali, della riduzione delle prebende e dei privilegi, delle auto blu. È davvero sufficiente per riacquistare consensi? O ci vuole, a questo punto, ben altro?
Veniamo alle vicende che hanno infiammato i palazzi in quest’ultima settimana. Com’è noto, giorni fa Mastella, sulla base dei risultati di un’ispezione ministeriale, aveva chiesto al Csm di trasferire in via cautelare dal suo ufficio il pubblico ministero calabrese De Magistris, che sta conducendo importanti indagini penali che coinvolgono personalità politiche di rilievo fra cui il presidente del Consiglio. La ragione di tale iniziativa sarebbe individuabile in un’asserita sua incompatibilità ambientale e nella commissione di atti abnormi nell’esercizio della funzione giudiziaria.
Non conoscendo gli atti, non sono in grado di esprimere giudizi sulla vicenda. Posso soltanto manifestare un generico stupore di fronte alla peculiarità dell’iniziativa del ministro e alle conseguenze che essa rischia di produrre sul terreno delle inchieste calabresi in corso. Attendo comunque le valutazioni del Csm, confidando che le procedure siano state regolari e che non si sia inteso colpire un magistrato scomodo chiedendo un trasferimento non giustificato. L’iniziativa disciplinare assunta nei confronti di De Magistris era, comunque, destinata a suscitare reazioni. Esse si sono puntualmente manifestate, addirittura al di là di quanto era prevedibile. La televisione ha contribuito a enfatizzarle oltre misura. Si è, fra l’altro, assistito a inaccettabili giustizie sommarie televisive celebrate sull’onda della pressione popolare e alla sorprendente apparizione sul video di magistrati pronti a partecipare, sorridenti, allo spettacolo. È giusto che i magistrati, se indebitamente attaccati, si difendano. Vi sono tuttavia luoghi e modi a ciò deputati. Non ritengo che sia opportuno che qualcuno di essi si precipiti in televisione, coccolato dal conduttore e applaudito dagli spettatori, parli di se stesso e del coraggio con il quale difende legalità e diritti dei cittadini, di come contrasta le illegalità dello Stato e degli altri poteri, di come sia di conseguenza attaccato, ostacolato, delegittimato.
Per altro verso, un magistrato che, presentandosi a una trasmissione televisiva, accarezza i sentimenti già accesi della gente, solletica gli istinti e le rabbie degli ascoltatori, cerca il consenso popolare, è un magistrato che rischia di non giovare neppure alla categoria cui appartiene. Diventa un Masaniello, una caricatura, finisce per identificarsi pericolosamente con Grillo, si trasforma in una parodia. Se si trattasse, d’altronde, di una mera operazione di promozione della propria immagine sulla pelle dei cittadini amministrati, per cercare, magari, visibilità utile per altre avventure, la circostanza sarebbe altrettanto grave.
Ecco perché, come dicevo all’inizio, oggi il contesto nel quale ci ritroviamo è peggiore di quello del ’92. Allora c’era una Repubblica al tramonto, ma c’era speranza nel riscatto della politica, c’era fiducia nell’attività taumaturgica, moralmente ineccepibile, del potere giudiziario, c’era la certezza di uscirne in qualche modo. Oggi c’è una classe politica allo sbando, delegittimata nel suo insieme dai cittadini ma, anche, una magistratura che non sempre sembra all’altezza dei suoi compiti, che pare aver perso talvolta contezza del suo ruolo, che troppo spesso pasticcia. C’è, dunque, una Repubblica doppiamente infranta.