Il secolo (lunghissimo) di Arturo Paoli
di Marco Giorgetti (“popoli”, dicembre 2012)
«Sono contento della mia vita, perché molte volte ho visto chiaramente l’intervento del Signore, posso dire con serenità che è stata una vita interamente guidata dalla mano di Dio». Parola di Arturo Paoli, 100 anni il prossimo 30 novembre, quasi tutti trascorsi al servizio degli «ultimi» in varie aree del mondo.
Il corpo tradisce gli inevitabili acciacchi di chi arriva a questa età, ma la mente e lo spirito sono in
gran forma. Siamo andati a trovarlo sulle colline lucchesi dove ora risiede e da dove molti anni fa
iniziò, appena dopo la sua ordinazione sacerdotale (avvenuta nel giugno 1940), il suo cammino
insieme ai poveri e ai perseguitati. Era da poco passato l’8 settembre 1943 e, partecipando
attivamente alla resistenza, Arturo Paoli collabora con la rete clandestina Delasem (Delegazione per
l’assistenza degli emigranti ebrei), diretta da Giorgio Nissim, per l’assistenza agli ebrei perseguitati.
«Sono stati anni duri - ricorda -. Il mondo cattolico lucchese era una grande rete clandestina per
l’aiuto ai fratelli ebrei. Suore, sacerdoti, monaci, erano tutti impegnati in modi diversi per la loro
salvezza. Molti hanno pagato con la vita; ricordo la strage della Certosa di Farneta (12
monaci trucidati dalle Ss, ndr) e molti altri preti furono assassinati successivamente».
Per questo suo impegno nel 1999 lo Stato di Israele lo ha insignito dell’onorificenza di «Giusto delle
Nazioni» e nel 2006 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi lo ha premiato con la
medaglia d’oro al valore civile.
«Sinceramente non mi aspettavo questi riconoscimenti, mi hanno
fatto piacere, anche se a me basta sapere di avere servito bene il Signore e i fratelli in vicende
difficili, il resto sono cose di uomini».
Dopo la guerra, nel 1949 viene chiamato a Roma da
mons. Giovanni Battista Montini (allora pro-segretario di Stato e futuro papa Paolo VI), e inizia
l’impegno in Azione cattolica come vice-assistente nazionale.
«Erano gli anni della rinascita
dell’Italia, furono anni belli e intensi. Ho un bellissimo ricordo di monsignor Montini, un uomo
che mi è stato profondamente amico, con il quale ho condiviso grandi progetti, non solo
nell’Azione cattolica. Ma non voglio negare anche il difficile rapporto con Luigi Gedda (presidente
della stessa Ac) e con i suoi comitati civici, che sono stati a mio parere la rovina della
Democrazia cristiana. Si verificarono continue divergenze che in poco tempo mi portarono a
lasciare “forzatamente” l’Italia».
RINASCERE NEL DESERTO
Dopo un periodo come assistente spirituale agli emigranti sulle navi dirette verso il continente
americano, Arturo Paoli affronta un’esperienza che cambierà la sua vita: il deserto algerino.
«Nel deserto sono morto e risuscitato. Ho rischiato di perdere totalmente la fede, senza la quale
per me rimaneva solo il suicidio. Fu un periodo tremendo, non avevo desiderio di vita, davanti
a me solo il nulla. Ma, proprio nel deserto, Dio si è fatto sentire nitidamente. La mia
resurrezione è avvenuta attraverso un pellegrinaggio di 600 chilometri, a piedi. Il Signore
camminava con me, sentivo forte la sua presenza e una frase che ripetutamente mi
risuonava dentro: “Non siete voi che amate me, ma sono io che amo voi”».
Dopo l’ingresso nella congregazione religiosa dei Piccoli Fratelli di Gesù, ispirata a Charles de Foucauld, il sacerdote toscano cerca di rientrare in Italia, ma le numerose pressioni politiche esercitate da Gedda in Vaticano lo portano nuovamente lontano. Sceglie l’Argentina e il Sudamerica, dove rimarrà circa 45 anni.
Qui, oltre a fondare diverse comunità dei Piccoli Fratelli, si impegna nell’assistenza ai parenti dei desaparecidos, nelle lotte a fianco dei campesinos sfruttati dai latifondisti, nell’assistenza a ragazze madri e a bambini abbandonati.
Nel 1969 Arturo Paoli aderisce alla Teologia della liberazione, un’esperienza perlopiù osteggiata
dalle gerarchie, ma su cui Paoli non ha dubbi.
«La Teologia della liberazione è stata vittima di
numerosi equivoci. Volutamente strumentalizzata dai suoi avversari, da chi aveva paura di perdere
privilegi, è stata prima accostata a teorie marxiste e poi a derive di lotta armata. Ma non
c’entra niente con queste falsità. È solo un cammino cristiano di liberazione dalla miseria e di
presa di coscienza dei propri diritti. Oggi ci sono molti gruppi, soprattutto in Brasile, che stanno
riprendendo quel cammino».
Gli anni Settanta, in America latina, sono anche quelli del golpe
cileno, della dittatura militare in Argentina e delle guerre civili in America centrale.
«In Argentina ho visto cose inenarrabili - racconta padre Arturo -, a partire da una Chiesa quasi
totalmente connivente con il regime militare. Se l’episcopato argentino (come quello cileno, peraltro)
si fosse opposto fermamente alla repressione, sono sicuro che le gerarchie militari non avrebbero
osato fare quello che hanno commesso; lo ha confessato recentemente anche lo stesso generale
Arturo Videla. Ben diversamente andarono le cose in America centrale. Anche lì sono stati pagati
enormi tributi di sangue, ma la posizione della Chiesa è stata diversa. Basti ricordare Oscar
Romero e la grande testimonianza dei gesuiti salvadoregni, oppure l’esperienza del governo
sandinista in Nicaragua nel 1979, al cui interno c’erano quattro religiosi con cariche ministeriali.
Credo sia stato giusto da parte loro portare un contributo diretto, il Nicaragua si stava
rialzando dopo una guerra civile cruenta».
PER USCIRE DALLA CRISI
Cosa pensa, chiediamo, della situazione attuale dell’America Latina?
«Il continente ha fatto passi
enormi da quei tempi. Oggi credo che il Brasile possa rappresentare un punto di riferimento
importante in quell’area, grazie anche alle scelte fatte sotto la presidenza Lula, che hanno
sviluppato una rete di collaborazioni privilegiate, su vari settori, con altri Stati sudamericani, più
che con le solite superpotenze. Questa scelta politica rappresenta la via per l’effettiva emancipazione
del Sud del mondo: allearsi tra simili, cercando l’indipendenza dai soliti “giganti” del Nord».
Ma quello di Arturo Paoli è uno sguardo lungo un secolo, che non si concentra solo sulle vicende
latinoamericane. Viene spontaneo allora chiedergli qualche parola anche sulla crisi, non
solo economica, in cui siamo immersi.
«Dobbiamo uscire dall’idolatria del “mercato”. La politica si
è sottomessa da tempo ai dettami economici che creano, direttamente o indirettamente, migliaia
di morti e molta sofferenza. L’uomo deve riprendere le redini della propria esistenza, uscire dalle
ipocrisie che si è creato da solo; il precariato, grandissima piaga sociale, viene chiamato “flessibilità”.
Ci siamo creati, da soli, dogmi economici che non osiamo mettere in discussione, anche se è
evidente che stiamo scivolando sempre di più in fondo al baratro. Viviamo una frammentazione
causata da un individualismo alimentato ad arte da una certa cultura. Abbiamo più mezzi di
comunicazione, ma siamo più isolati: tutto a vantaggio dei grandi « centri di potere economico
che ci manipolano mediaticamente a loro piacimento. Anche in questo la Chiesa ha
responsabilità, con le sue connivenze silenziose con governi dei potenti di turno».
Si torna sempre lì, a una Chiesa così amata, ma a cui don Arturo Paoli non risparmia critiche:
«Io verifico da tempo, tra le tante cose, anche il precipitare delle vocazioni sacerdotali; i nostri
seminari e i nostri conventi sono vuoti. È una cosa che mi addolora profondamente: se fossimo
stati fedeli alle riforme del Concilio Vaticano II non ci troveremmo in questa condizione.
Dobbiamo interrogarci su cosa siamo chiamati a fare, come testimoni di Cristo, nel terzo millennio.
Dobbiamo uscire da una teologia astratta, da una fede dottrinale: dovremmo vivere più
concretamente il Vangelo, cercando anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia».
A 100 anni la
morte fa meno paura?
«Spero di incontrare presto il Padre di noi tutti, molto spesso prego perché
ciò si realizzi, ho atteso tutta una vita. Lo riconoscerò perché mi sorriderà, un Padre sorride
sempre con amore guardando i suoi figli».