Inviare un messaggio

In risposta a:
PIANETA TERRA. Sulla strada della nonviolenza ...

"L’ANTIBARBARIE. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo". Un lavoro di Giuliano PONTARA, presentato da Enrico Peyretti - in allegato: "Gandhi", un saggio di Franco Toscani - a c. di Federico La Sala

lunedì 16 ottobre 2006
[...] Gandhi riconobbe dolorosamente, nel 1948, che nel conflitto indo-musulmano la nonviolenza era fallita, con le stragi, con la divisione tra India e Pakistan. Già nel 1921 diceva: osservare la dottrina nonviolenta in un mondo di passioni e violenze è difficile. Ma rimase sempre «prigioniero della speranza» (titolo del libro di J. M. Brown, Il Mulino, 1995), speranza che le tendenze naziste non portino alla distruzione dell’umanità [...]
 (...)

In risposta a:

> "L’ANTIBARBARIE. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo". --- Gan­d­hi tra Orien­te e Oc­ci­den­te. Intervista a Gianni Sofri (di B. Bertoncin).

giovedì 13 ottobre 2016

Nel­la tua ri­co­stru­zio­ne ti sof­fer­mi sul­la sto­ria di un an­no, il 1909. Puoi rac­con­ta­re?

Ne­gli an­ni in­tor­no al 1909 Gan­d­hi ope­ra una se­rie di tra­sfor­ma­zio­ni, in­tro­du­ce que­sto con­cet­to di brah­ma­cha­rya, che non è sem­pli­ce­men­te la ca­sti­tà, va in­te­so co­me con­trol­lo del cor­po più in ge­ne­ra­le; poi co­min­cia an­che a tra­sfor­ma­re il suo at­teg­gia­men­to po­li­ti­co, nel sen­so di ren­der­lo più ra­di­ca­le, in­si­ste mol­to per esem­pio sul fat­to che la non­vio­len­za non può e non de­ve es­se­re sol­tan­to au­to­di­fe­sa, de­ve ave­re la ca­pa­ci­tà di an­da­re al­l’at­tac­co; non­vio­len­za non vuol di­re ri­fiu­to del­la con­flit­tua­li­tà, vuol di­re ac­cet­ta­zio­ne, ge­stio­ne del­la con­flit­tua­li­tà. Quin­di una ra­di­ca­liz­za­zio­ne del suo pen­sie­ro.
-  Nel 1909 esce an­che il li­bro più ra­di­ca­le di Gan­d­hi, Hind Swaraj, di cri­ti­ca al­la ci­vil­tà mo­der­na, al­l’in­du­stria­liz­za­zio­ne, al­le cit­tà, al­le fer­ro­vie. Pos­sia­mo di­re che Ivan Il­li­ch è un as­so­lu­to di­sce­po­lo di que­sto li­bro. Gan­d­hi ha de­gli aspet­ti pas­sa­ti­sti, non c’è dub­bio; Hind Swaraj è an­che un li­bro pie­no di con­trad­di­zio­ni, pe­rò io ho cer­ca­to di met­te­re in evi­den­za al­cu­ne in­tui­zio­ni im­por­tan­ti. In par­ti­co­la­re c’è una fra­se che mi pia­ce mol­tis­si­mo: "Il non co­min­cia­men­to di una co­sa è sag­gez­za su­pre­ma”. È la fra­se che apre l’e­po­ca del­l’e­co­lo­gia; è l’i­dea che tut­to si tie­ne. Con que­st’o­pe­ra Gan­d­hi vuo­le an­che di­re agli in­dia­ni: guar­da­te che non ba­sta aver cac­cia­to gli in­gle­si, bi­so­gna ave­re cam­bia­to se stes­si. Per­ché se no non si vin­ce la guer­ra.
-  Il 1909 è un an­no im­por­tan­te an­che per un al­tro mo­ti­vo: il 2 lu­glio a Lon­dra c’è un at­ten­ta­to po­li­ti­co, un gio­va­ne in­dia­no, Ma­dan­lal Dhin­gra, uc­ci­de il ca­po di ga­bi­net­to del se­gre­ta­rio di sta­to per l’In­dia. Dhin­gra è mem­bro di un’as­so­cia­zio­ne fon­da­ta da Sa­var­kar, un per­so­nag­gio già no­to per il suo estre­mi­smo, e che lo di­ver­rà an­co­ra di più do­po aver pas­sa­to al­cu­ni an­ni nel­le ga­le­re bri­tan­ni­che. Og­gi è con­si­de­ra­to uno dei ve­ne­ra­ti pa­dri fon­da­to­ri del­la de­stra na­zio­na­li­sta in­dia­na, con ve­na­tu­re fa­sci­ste.
-  Nel 1909 Gan­d­hi ar­ri­va a Lon­dra dal Su­da­fri­ca, per una mis­sio­ne di­plo­ma­ti­ca, po­chi gior­ni do­po che Dhin­gra ave­va com­mes­so l’o­mi­ci­dio, e ha mo­do di se­gui­re la vi­cen­da sui gior­na­li e nei suoi col­lo­qui con uo­mi­ni po­li­ti­ci bri­tan­ni­ci. Qual­che me­se do­po, in una riu­nio­ne fra in­dia­ni (ma pre­sen­te un agen­te in­gle­se che re­gi­stra di­li­gen­te­men­te quan­to si di­ce) ha mo­do di po­le­miz­za­re con Sa­var­kar: è l’i­ni­zio di un in­quie­tan­te, tra­gi­co rap­por­to che du­re­rà de­cen­ni. Sa­var­kar era sta­to cer­ta­men­te il man­dan­te del­l’o­mi­ci­dio com­mes­so da Dhin­gra e nel 1948 fu qua­si cer­ta­men­te lui il man­dan­te del­l’as­sas­si­nio di Gan­d­hi (non mi sem­bra ci pos­sa­no es­se­re mol­ti dub­bi, ben­ché un tri­bu­na­le lo man­das­se uf­fi­cial­men­te as­sol­to). Nel frat­tem­po, in più oc­ca­sio­ni, so­prat­tut­to in quel­la di una va­sta cam­pa­gna per far­lo usci­re di pri­gio­ne, Gan­d­hi si era im­pe­gna­to in fa­vo­re di Sa­var­kar, che lo ave­va ri­cam­bia­to con un aper­to di­sprez­zo.
-  Ma tor­nia­mo a noi e al 1909. In quel­l’an­no, a Lon­dra, Gan­d­hi vie­ne mes­so di fron­te ad al­cu­ni dei per­so­nag­gi che rap­pre­sen­ta­no il mon­do del­la vio­len­za (an­che ter­ro­ri­sti­ca) in In­dia. È un an­no de­ci­si­vo per la sua evo­lu­zio­ne po­li­ti­ca, e ci aiu­ta a ca­pi­re co­me ci sia­no mo­men­ti nei qua­li, più che i li­bri (an­che se "gran­di li­bri”) con­ti­no a vol­te gli in­con­tri di­ret­ti con per­so­ne, fat­ti, idee in azio­ne. Nel ca­so di Gan­d­hi a Lon­dra nel 1909, l’e­stre­mi­smo os­ser­va­to da vi­ci­no. Non ci so­no so­lo il giai­ni­smo o Tol­stoj. Gan­d­hi ha vi­sto co­sa so­no i vio­len­ti e ha do­vu­to bat­ta­glia­re con lo­ro, an­che se con una cer­ta pru­den­za. In Hind Swaraj, lad­do­ve par­la del rap­por­to fra vio­len­za e non­vio­len­za, è cau­to per­ché ha co­no­sciu­to mol­ti in­dia­ni che stan­no se­guen­do que­sta stra­da e quin­di non può li­mi­tar­si a con­dan­na­re. Cioè lui con­dan­na ma vuo­le ca­pi­re. C’è un’ul­ti­ma que­stio­ne su cui co­min­cia a in­ter­ro­gar­si sem­pre nel 1909. Fi­no ad al­lo­ra Gan­d­hi si era abi­tua­to al­l’i­dea che la sua vo­ca­zio­ne fos­se di di­fen­de­re i di­rit­ti e cam­bia­re la vi­ta de­gli in­dia­ni del Su­da­fri­ca.
-  In­ve­ce, at­tra­ver­so que­sti in­con­tri con Sa­var­kar, Dhin­gra e gli al­tri, ca­pi­sce che il Su­da­fri­ca è un vi­co­lo cie­co, non po­trà mai vin­ce­re da so­lo. Ca­pi­sce che pri­ma o poi, lui, Gan­d­hi, do­vrà pren­de­re in ma­no i de­sti­ni del­l’In­dia in­te­ra. Non lo di­ce espli­ci­ta­men­te e non lo fa su­bi­to, pe­rò in­co­min­cia a pen­sar­ci e po­chi an­ni do­po lo fa­rà. Lo fa­rà an­che con mol­ta for­za, per­ché è lui il ri­fon­da­to­re del Par­ti­to del Con­gres­so. Fa­rà mol­ta po­li­ti­ca, ma sem­pre con la ca­pa­ci­tà di ri­ti­rar­si ogni tan­to: ne­gli ash­ram, nel­l’In­dia dei vil­lag­gi, a stu­dia­re e pre­di­ca­re ri­for­me mo­ra­li e so­cia­li. Di­ven­te­rà fa­mo­so an­che co­me un po­li­ti­co, ma di una po­li­ti­ca di­ver­sa, con re­go­le nuo­ve, me­no stac­ca­ta dal­la mo­ra­le; e ri­mar­rà sem­pre pron­to a stu­pi­re gli av­ver­sa­ri, fos­se­ro in­gle­si o in­dia­ni, per la sua ca­pa­ci­tà di ro­ve­scia­re im­prov­vi­sa­men­te, ma sem­pre in ma­nie­ra lea­le, i ta­vo­li sui qua­li si sta­va gio­can­do.

In bio­gra­fie re­cen­ti so­no sta­ti cri­ti­ca­ti al­cu­ni at­teg­gia­men­ti di Gan­d­hi, per esem­pio ver­so i su­da­fri­ca­ni...

Gan­d­hi era an­ch’e­gli suc­cu­be del­la con­ce­zio­ne so­cio-an­tro­po­lo­gi­ca do­mi­nan­te in que­gli an­ni. Al­la fi­ne del­l’Ot­to­cen­to vi­ge­va una con­ce­zio­ne po­si­ti­vi­sti­ca che ve­de­va l’u­ma­ni­tà a gra­di­ni. An­che lui, se vuoi, con­si­de­ra­va gli in­dia­ni un gra­di­no im­me­dia­ta­men­te sot­to i bian­chi, con una ac­cen­tua­zio­ne cul­tu­ra­le, più che fi­si­ca. In­ve­ce ve­de­va i ne­ri afri­ca­ni nel gra­di­no più bas­so. Il suo ap­proc­cio agli afri­ca­ni ori­gi­na­ri non era mol­to di­ver­so da quel­lo dei co­lo­niz­za­to­ri bian­chi. Ma per­ché lui in real­tà fa­ce­va par­te di quel­la cul­tu­ra. Lui ave­va una gran­dis­si­ma cul­tu­ra eu­ro­pea. E il suo ere­de, Neh­ru, an­co­ra di più. Quan­do scop­piò la guer­ra di Spa­gna, non so­lo Neh­ru ci an­dò (an­che se so­lo per qual­che gior­no), ma scris­se che "la no­stra ci­vil­tà era in pe­ri­co­lo”. La no­stra ci­vil­tà. In se­gui­to an­dò an­che in Rus­sia per ca­pi­re co­sa fos­se que­sta ri­vo­lu­zio­ne, e ne fu en­tu­sia­sta, tan­t’è che por­tò an­che in In­dia l’i­dea del­la pro­gram­ma­zio­ne eco­no­mi­ca, dei pia­ni quin­quen­na­li...
-  Neh­ru ave­va stu­dia­to nel­le più fa­mo­se scuo­le e uni­ver­si­tà in­gle­si. An­che Gan­d­hi ave­va stu­dia­to in In­ghil­ter­ra. Non so­lo, quan­do an­da­va in pri­gio­ne leg­ge­va una quan­ti­tà di li­bri e poi, es­sen­do un pi­gno­lo, ne elen­ca­va tut­ti i ti­to­li. "Ho let­to...”, due pun­ti, e se­gui­va­no pa­gi­ne e pa­gi­ne di ti­to­li di li­bri, ma i più sva­ria­ti. Una vol­ta pub­bli­cai in un ar­ti­co­lo uno di que­sti elen­chi, era im­pres­sio­nan­te.

Hai de­di­ca­to un ca­pi­to­lo del li­bro al­le bio­gra­fie di Gan­d­hi.

Vo­le­vo so­prat­tut­to met­te­re in evi­den­za un aspet­to pe­cu­lia­re, e cioè il ca­rat­te­re "gan­d­hi­cen­tri­co” del­le bio­gra­fie di Gan­d­hi. Il fat­to che la fon­te prin­ci­pa­le di tut­ti gli scrit­ti su Gan­d­hi sia­no le sue stes­se bio­gra­fie o gli scrit­ti dei suoi se­gua­ci ha co­me ef­fet­to e con­se­guen­za che se tu leg­gi un li­bro in­ti­to­la­to "L’In­dia con­tem­po­ra­nea”, ti sem­bra che nel­l’In­dia con­tem­po­ra­nea ci sia so­lo il Par­ti­to del Con­gres­so. Tut­t’al più ci so­no i con­flit­ti al­l’in­ter­no del Par­ti­to, Ti­lak con Gan­d­hi, Bo­se con Neh­ru, e qual­che ac­cen­no agli estre­mi­sti dei pri­mi an­ni del se­co­lo, ma so­no tut­te com­par­se. Gan­d­hi pre­do­mi­na.
-  Il pro­ble­ma di que­ste sto­rie del­l’In­dia con­tem­po­ra­nea è che so­no co­strui­te in ma­nie­ra ta­le da non far ca­pi­re be­ne al let­to­re co­me mai og­gi c’è al go­ver­no uno che si chia­ma Mo­di. Per que­sto io ho sen­ti­to il bi­so­gno di al­cu­ni ca­pi­to­li in­te­ra­men­te nuo­vi, uno dei qua­li par­las­se del­la com­ples­si­tà del­la sto­ria in­dia­na. Vo­le­vo far ca­pi­re che il Par­ti­to del Con­gres­so era ef­fet­ti­va­men­te il fi­lo­ne prin­ci­pa­le, pe­rò ac­can­to, e spes­so in­ter­se­ca­to, c’e­ra an­che que­st’al­tro fi­lo­ne.
-  Do­po l’uc­ci­sio­ne di Gan­d­hi, an­che se sia i suoi fa­mi­lia­ri che quel­li di Tol­stoj in­ter­ven­ne­ro a chie­de­re che gli ese­cu­to­ri non ve­nis­se­ro uc­ci­si, i due re­spon­sa­bi­li fu­ro­no con­dan­na­ti a mor­te (pe­rò Sa­var­kar fu in­ve­ce as­sol­to). Que­sti mo­vi­men­ti su­bi­ro­no in se­gui­to un fer­mo per qual­che an­no. Mo­di pe­rò è pro­prio l’e­re­de di que­st’al­tra tra­di­zio­ne. Un let­to­re di que­sto li­bro mi ha det­to: "Ma lo sai che non avrei mai im­ma­gi­na­to che quel­li che go­ver­na­no og­gi l’In­dia so­no quel­li che han­no uc­ci­so Gan­d­hi!”. In­ve­ce in qual­che mo­do è co­sì.

Una cu­rio­si­tà: do­ve na­sce la tua pas­sio­ne per l’A­sia?

In ef­fet­ti è una sto­ria cu­rio­sa che fa ca­pi­re co­me a vol­te il ca­so ab­bia un suo ruo­lo. Io mi so­no lau­rea­to nel 1958 sui cat­to­li­ci li­be­ra­li to­sca­ni, ho fat­to la te­si di lau­rea su Lam­bru­schi­ni, Cap­po­ni e Tom­ma­seo, e poi ho con­ti­nua­to stu­dian­do te­mi di sto­ria ita­lia­na. Ap­pe­na lau­rea­to, as­sie­me a un mio ca­ris­si­mo ami­co che si chia­ma Tra­niel­lo, so­no an­da­to a la­vo­ra­re a To­ri­no, do­ve uno dei no­stri pro­fes­so­ri di­ri­ge­va un’en­ci­clo­pe­dia sto­ri­ca. Era sta­to pro­gram­ma­to un sag­gio sul­la Ci­na, una de­ci­na di pa­gi­net­te che do­ve­va da­re un’im­ma­gi­ne chia­ra del­la Ci­na dal­le ori­gi­ni ai gior­ni no­stri! Eb­be­ne, l’au­to­re di que­sto sag­gio al­l’ul­ti­mo mo­men­to ci fe­ce sa­pe­re che non ce la fa­ce­va. Mi chia­ma­ro­no: "Sen­ti, lo fai tu?”. Io non ne sa­pe­vo nien­te, del­la Ci­na. Mi scel­si die­ci li­bri, di più non po­te­va­no es­se­re per­ché ave­vo una set­ti­ma­na, mi chiu­si in una stan­za e scris­si que­sto pez­zo, che fu ap­prez­za­to.
-  Poi, sem­pre un po’ ca­sual­men­te, mi im­bat­tei nel pro­ble­ma del "mo­do di pro­du­zio­ne asia­ti­co”. Me ne ave­va par­la­to Car­lo Po­ni, gran­de stu­dio­so di sto­ria eco­no­mi­ca (for­li­ve­se, fra l’al­tro). Que­sto pro­ble­ma ap­pas­sio­nò i co­mu­ni­sti del Co­min­tern, del­la Ter­za in­ter­na­zio­na­le ne­gli an­ni Ven­ti e Tren­ta, ma li ap­pas­sio­nò al pun­to che Sta­lin al­cu­ni li uc­ci­se. La que­stio­ne era la se­guen­te: le so­cie­tà uma­ne se­guo­no tut­te la stes­sa stra­da, cioè co­mu­ni­smo pri­mi­ti­vo, so­cie­tà schia­vi­sti­ca, so­cie­tà feu­da­le, ca­pi­ta­li­smo, poi ne­ces­sa­ria­men­te co­mu­ni­smo? Op­pu­re ci so­no an­che so­cie­tà che si pon­go­no ai mar­gi­ni e han­no sto­rie di­ver­se? -Per esem­pio, ci so­no so­cie­tà asia­ti­che, co­me l’In­dia e la Ci­na, che han­no una tra­di­zio­ne di di­spo­ti­smo orien­ta­le e di non pro­prie­tà pri­va­ta del­la ter­ra. La ter­ra ap­par­tie­ne al so­vra­no, al­lo sta­to. Da que­sta di­scus­sio­ne ne­gli an­ni in cui il Co­min­tern co­min­cia­va a in­ter­ve­ni­re crean­do par­ti­ti co­mu­ni­sti in Ci­na, In­dia, dap­per­tut­to, si trae­va­no del­le con­se­guen­ze. Per esem­pio Troc­kij di­ce­va: no, qui non c’è una so­cie­tà bor­ghe­se, quin­di bi­so­gna la­vo­ra­re a or­ga­niz­za­re su­bi­to una so­cie­tà so­cia­li­sta, sal­tan­do una fa­se. Gli al­tri di­ce­va­no: no, non si può sal­ta­re una fa­se, le fa­si so­no quel­le. E co­sì via. Per que­sto si ve­ni­va al­le ma­ni, e non so­lo al­le ma­ni.
-  Quin­di io scris­si un li­bro su que­sto che uscì da Ei­nau­di e ven­ne tra­dot­to in tan­ti pae­si del mon­do, com­pre­sa la Sve­zia, il Bra­si­le, do­ve gra­zie a in­ter­net ho sco­per­to che è an­co­ra in uso in qual­che uni­ver­si­tà. De­vo di­re che suc­ces­si­va­men­te so­no en­tra­te in gio­co al­tre co­se. In­tan­to la cu­rio­si­tà per le lot­te di li­be­ra­zio­ne, l’Al­ge­ria pri­ma di tut­to (so­no più vec­chio del­la ge­ne­ra­zio­ne del Viet­nam), e poi la Ci­na, che ci ha at­ti­ra­to mol­to, e lì ho avu­to del­le ca­du­te, nel sen­so che so­no sta­to ab­ba­stan­za fi­lo­ci­ne­se, an­che se mai a li­vel­lo dei mar­xi­sti le­ni­ni­sti, dei maoi­sti pu­ri. In que­gli an­ni scris­si un ar­ti­co­lo sul­la po­li­ti­ca este­ra ci­ne­se, usci­to sui "Qua­der­ni pia­cen­ti­ni”, che era mol­to cri­ti­co, an­che iro­ni­co, scher­zo­so, co­sa in­sop­por­ta­bi­le per i maoi­sti.
-  Que­sto ar­ti­co­lo piac­que mol­to al­la ri­vi­sta di Sar­tre, "Les Temps Mo­der­nes”, co­sì An­dré Gorz mi scris­se e mi chie­se se po­te­va­no tra­dur­lo. Po­co do­po mi ca­pi­tò di an­da­re a Pa­ri­gi, e in una li­bre­ria mi mi­si a sfo­glia­re l’ul­ti­mo nu­me­ro di una ri­vi­sta ab­ba­stan­za fa­mo­sa di al­lo­ra, "Tel Quel”, do­ve c’e­ra un ar­ti­co­lo sul­la po­li­ti­ca este­ra ci­ne­se; vi­di che mi ci­ta­va, non cer­to fa­vo­re­vol­men­te.
-  Non mi fe­ce una gran­de im­pres­sio­ne. So­lo che con­ti­nuan­do a sfo­gliar­la mi ac­cor­si che a se­gui­re c’e­ra un al­tro ar­ti­co­lo di so­le due pa­gi­ne, mol­to fit­te, in­ti­to­la­to "Le cas Gian­ni So­fri”. Que­sto ar­ti­co­lo, di un maoi­sta fran­ce­se im­por­tan­te, me ne di­ce­va di tut­ti i co­lo­ri, mi ac­cu­sa­va di sog­get­ti­vi­smo, mi di­ce­va tut­te le co­se peg­gio­ri che un maoi­sta po­tes­se di­re. Ec­co, pro­ba­bil­men­te que­sta co­sa mi ha sal­va­to.
-  In­ve­ce l’in­con­tro con Gan­d­hi lo so spie­ga­re me­no be­ne. Al­l’e­po­ca si leg­ge­va­no so­prat­tut­to ar­ti­co­li di fi­lo­ci­ne­si, nei qua­li si fa­ce­va spes­so un pa­ra­go­ne tra la Ci­na e l’In­dia, per di­re, sì, l’In­dia è più de­mo­cra­ti­ca, ma in fon­do che de­mo­cra­zia è se poi muo­io­no di fa­me? E al­lo­ra si fa­ce­va ve­de­re che l’In­dia cre­sce­va po­chis­si­mo men­tre la Ci­na (do­ve pe­rò mo­ri­va­no di fa­me an­co­ra di più) cre­sce­va a rit­mi mol­to ele­va­ti. Que­sta co­sa co­min­ciò a dar­mi un po’ fa­sti­dio, al­lo­ra mi mi­si a leg­ge­re, a cer­ca­re di ca­pi­re. An­che leg­ge­re quel­lo che scri­ve­va­no di Gan­d­hi gli scrit­to­ri co­mu­ni­sti, che lui non era che un ser­vo del­la bor­ghe­sia in­dia­na, mi in­fa­sti­di­va. Il fa­sti­dio au­men­tò quan­do mi ac­cor­si che i co­mu­ni­sti co­min­cia­ro­no a ri­va­lu­ta­re po­co per vol­ta sia Gan­d­hi sia, a li­vel­lo ita­lia­no, Ca­pi­ti­ni. Ciò che più mi di­stur­ba­va è che, ad esem­pio, scri­ve­va­no de­gli ar­ti­co­li sull’"Uni­tà”, par­lan­do be­ne di que­ste per­so­ne, co­me se l’a­ves­se­ro fat­to sem­pre, di­men­ti­can­do­si di di­re: "Ci sia­mo sba­glia­ti”. Non c’e­ra al­cu­na au­to­cri­ti­ca. Il cul­mi­ne si rag­giun­se una vol­ta che mi in­vi­ta­ro­no a un con­ve­gno a Pe­ru­gia, la cit­tà di Ca­pi­ti­ni, che vo­le­va es­se­re il con­ve­gno del­la sua de­fi­ni­ti­va "ria­bi­li­ta­zio­ne”, lo­ro usa­no que­sto ter­mi­ne.
-  Ca­pi­ti­ni, tra l’al­tro, era sta­to mio pro­fes­so­re, pe­rò io non ave­vo sa­pu­to ap­pro­fit­ta­re di que­sta op­por­tu­ni­tà; per noi era un po’ una mac­chiet­ta, cre­de­va­mo di es­se­re più di si­ni­stra... Co­mun­que, mi chie­se­ro di fa­re una re­la­zio­ne. Ac­cet­tai, mi ri­cor­do che an­dai a Pe­ru­gia ac­com­pa­gna­to da un mio stu­den­te. Al­l’ar­ri­vo, vi­di que­sto ma­ni­fe­sto enor­me col fac­cio­ne di Ca­pi­ti­ni, e poi Par­ti­to co­mu­ni­sta, fe­de­ra­zio­ne di Pe­ru­gia ecc. Ca­pii che an­che lì non avreb­be­ro det­to nien­te, avreb­be­ro sem­pli­ce­men­te par­la­to be­ne di Ca­pi­ti­ni co­me fos­se uno di lo­ro. Al­lo­ra mi ar­rab­biai, but­tai via la re­la­zio­ne che ave­vo pre­pa­ra­to e ne fe­ci una im­prov­vi­sa­ta lì, di­cen­do: "Guar­da­te, mi fa un gran­de pia­ce­re che lo ria­bi­li­tia­te. Non ac­cu­so so­lo voi, ac­cu­so an­che me, per­ché l’ho avu­to co­me pro­fes­so­re e pur­trop­po non ho sa­pu­to ap­pro­fit­tar­ne...”, e quin­di rac­con­tai que­ste co­se e c’e­ra un gran­de im­ba­raz­zo, dav­ve­ro un gran­de im­ba­raz­zo. In­som­ma, è tut­to mol­to com­pli­ca­to. Quel­lo che è cer­to è che do­po di al­lo­ra de­ci­si che vo­le­vo ca­pi­re me­glio. Spe­ro di es­se­re riu­sci­to nel ca­so di Gan­d­hi a in­tro­dur­re del­le te­ma­ti­che me­no scon­ta­te, sen­za crea­re nuo­ve con­fu­sio­ni, pe­rò non lo so sin­ce­ra­men­te se ci so­no riu­sci­to.

Una que­stio­ne che ti vie­ne po­sta spes­so è se Gan­d­hi, il suo in­se­gna­men­to, pos­sa an­co­ra ser­vir­ci og­gi.

Pro­prio in una pre­sen­ta­zio­ne che ab­bia­mo fat­to al­l’Ar­chi­gin­na­sio, con Mar­cel­lo Fois, vo­len­do at­tua­liz­za­re la di­scus­sio­ne, si è pro­po­sto di in­ti­to­lar­la: "È an­co­ra at­tua­le Gan­d­hi in un’e­po­ca di gran­de vio­len­za?”. In quel­l’oc­ca­sio­ne ho ri­pre­so in ma­no un al­tro mio li­bro, quel­lo su Gan­d­hi in Ita­lia, il cui ca­pi­to­lo fi­na­le è in­ti­to­la­to "Gan­d­hi e i dit­ta­to­ri”.
-  La mia te­si è che sen­z’al­tro non bi­so­gna smet­te­re di leg­ge­re Gan­d­hi per­ché ci so­no dei per­so­nag­gi che so­no uni­ver­sa­li, che so­no di­fen­so­ri di va­lo­ri uni­ver­sa­li e bi­so­gna quin­di abi­tuar­si al­l’i­dea che è ne­ces­sa­rio gio­ca­re sem­pre su due ta­vo­li. Un ta­vo­lo è l’e­du­ca­zio­ne del­l’u­ma­ni­tà, per usa­re l’e­spres­sio­ne di Les­sing: l’e­du­ca­zio­ne del­l’u­ma­ni­tà per un gior­no in cui sia pos­si­bi­le vi­ve­re in un al­tro mo­do. Cioè su­pe­ra­re le in­cro­sta­zio­ni che se­co­li e se­co­li di vio­len­za han­no pro­dot­to su di noi, quin­di co­strui­re so­cie­tà fon­da­te su al­tri va­lo­ri, su al­tre abi­tu­di­ni, su al­tre leg­gi, ecc., e que­sto è un ta­vo­lo. Ma con­tem­po­ra­nea­men­te de­vi gio­ca­re su un al­tro ta­vo­lo, i cui gio­ca­to­ri so­no Hi­tler, Al Ba­gh­da­di, Bin La­den, ecc., ecc. Con­ti­nuan­do in que­sto di­scor­so, io ho cer­ca­to di so­ste­ne­re che Gan­d­hi non ha avu­to la ca­pa­ci­tà e la pos­si­bi­li­tà, per di­stan­ze geo­gra­fi­che e cul­tu­ra­li, di co­glie­re la no­vi­tà dei re­gi­mi to­ta­li­ta­ri mo­der­ni. Da qui, le let­te­re scrit­te a Hi­tler, cer­can­do di esor­tar­lo a di­ven­ta­re non­vio­len­to, le let­te­re agli in­gle­si... In con­clu­sio­ne, se­con­do me, Gan­d­hi, per com­bat­te­re Hi­tler e sal­va­re gli ebrei, op­pu­re per sal­va­re l’Eu­ro­pa da que­sti di­sgra­zia­ti che si fan­no sal­ta­re in aria, che poi or­mai so­no im­pre­ve­di­bi­li, im­pal­pa­bi­li, ec­co, con­tro tut­to que­sto Gan­d­hi non ser­ve. Ma­lin­co­ni­ca­men­te, ma non si può non di­re que­sto. (a cu­ra di Bar­ba­ra Ber­ton­cin)

*

UNA CITTÀ n. 233 / 2016 settembre


Questo forum è moderato a priori: il tuo contributo apparirà solo dopo essere stato approvato da un amministratore del sito.

Titolo:

Testo del messaggio:
(Per creare dei paragrafi separati, lascia semplicemente delle linee vuote)

Link ipertestuale (opzionale)
(Se il tuo messaggio si riferisce ad un articolo pubblicato sul Web o ad una pagina contenente maggiori informazioni, indica di seguito il titolo della pagina ed il suo indirizzo URL.)
Titolo:

URL:

Chi sei? (opzionale)
Nome (o pseudonimo):

Indirizzo email: