Nella tua ricostruzione ti soffermi sulla storia di un anno, il 1909. Puoi raccontare?
Negli anni intorno al 1909 Gandhi opera una serie di trasformazioni, introduce questo concetto di brahmacharya, che non è semplicemente la castità, va inteso come controllo del corpo più in generale; poi comincia anche a trasformare il suo atteggiamento politico, nel senso di renderlo più radicale, insiste molto per esempio sul fatto che la nonviolenza non può e non deve essere soltanto autodifesa, deve avere la capacità di andare all’attacco; nonviolenza non vuol dire rifiuto della conflittualità, vuol dire accettazione, gestione della conflittualità. Quindi una radicalizzazione del suo pensiero.
Nel 1909 esce anche il libro più radicale di Gandhi, Hind Swaraj, di critica alla civiltà moderna, all’industrializzazione, alle città, alle ferrovie. Possiamo dire che Ivan Illich è un assoluto discepolo di questo libro. Gandhi ha degli aspetti passatisti, non c’è dubbio; Hind Swaraj è anche un libro pieno di contraddizioni, però io ho cercato di mettere in evidenza alcune intuizioni importanti. In particolare c’è una frase che mi piace moltissimo: "Il non cominciamento di una cosa è saggezza suprema”. È la frase che apre l’epoca dell’ecologia; è l’idea che tutto si tiene. Con quest’opera Gandhi vuole anche dire agli indiani: guardate che non basta aver cacciato gli inglesi, bisogna avere cambiato se stessi. Perché se no non si vince la guerra.
Il 1909 è un anno importante anche per un altro motivo: il 2 luglio a Londra c’è un attentato politico, un giovane indiano, Madanlal Dhingra, uccide il capo di gabinetto del segretario di stato per l’India. Dhingra è membro di un’associazione fondata da Savarkar, un personaggio già noto per il suo estremismo, e che lo diverrà ancora di più dopo aver passato alcuni anni nelle galere britanniche. Oggi è considerato uno dei venerati padri fondatori della destra nazionalista indiana, con venature fasciste.
Nel 1909 Gandhi arriva a Londra dal Sudafrica, per una missione diplomatica, pochi giorni dopo che Dhingra aveva commesso l’omicidio, e ha modo di seguire la vicenda sui giornali e nei suoi colloqui con uomini politici britannici. Qualche mese dopo, in una riunione fra indiani (ma presente un agente inglese che registra diligentemente quanto si dice) ha modo di polemizzare con Savarkar: è l’inizio di un inquietante, tragico rapporto che durerà decenni. Savarkar era stato certamente il mandante dell’omicidio commesso da Dhingra e nel 1948 fu quasi certamente lui il mandante dell’assassinio di Gandhi (non mi sembra ci possano essere molti dubbi, benché un tribunale lo mandasse ufficialmente assolto). Nel frattempo, in più occasioni, soprattutto in quella di una vasta campagna per farlo uscire di prigione, Gandhi si era impegnato in favore di Savarkar, che lo aveva ricambiato con un aperto disprezzo.
Ma torniamo a noi e al 1909. In quell’anno, a Londra, Gandhi viene messo di fronte ad alcuni dei personaggi che rappresentano il mondo della violenza (anche terroristica) in India. È un anno decisivo per la sua evoluzione politica, e ci aiuta a capire come ci siano momenti nei quali, più che i libri (anche se "grandi libri”) contino a volte gli incontri diretti con persone, fatti, idee in azione. Nel caso di Gandhi a Londra nel 1909, l’estremismo osservato da vicino. Non ci sono solo il giainismo o Tolstoj. Gandhi ha visto cosa sono i violenti e ha dovuto battagliare con loro, anche se con una certa prudenza. In Hind Swaraj, laddove parla del rapporto fra violenza e nonviolenza, è cauto perché ha conosciuto molti indiani che stanno seguendo questa strada e quindi non può limitarsi a condannare. Cioè lui condanna ma vuole capire. C’è un’ultima questione su cui comincia a interrogarsi sempre nel 1909. Fino ad allora Gandhi si era abituato all’idea che la sua vocazione fosse di difendere i diritti e cambiare la vita degli indiani del Sudafrica.
Invece, attraverso questi incontri con Savarkar, Dhingra e gli altri, capisce che il Sudafrica è un vicolo cieco, non potrà mai vincere da solo. Capisce che prima o poi, lui, Gandhi, dovrà prendere in mano i destini dell’India intera. Non lo dice esplicitamente e non lo fa subito, però incomincia a pensarci e pochi anni dopo lo farà. Lo farà anche con molta forza, perché è lui il rifondatore del Partito del Congresso. Farà molta politica, ma sempre con la capacità di ritirarsi ogni tanto: negli ashram, nell’India dei villaggi, a studiare e predicare riforme morali e sociali. Diventerà famoso anche come un politico, ma di una politica diversa, con regole nuove, meno staccata dalla morale; e rimarrà sempre pronto a stupire gli avversari, fossero inglesi o indiani, per la sua capacità di rovesciare improvvisamente, ma sempre in maniera leale, i tavoli sui quali si stava giocando.
In biografie recenti sono stati criticati alcuni atteggiamenti di Gandhi, per esempio verso i sudafricani...
Gandhi era anch’egli succube della concezione socio-antropologica dominante in quegli anni. Alla fine dell’Ottocento vigeva una concezione positivistica che vedeva l’umanità a gradini. Anche lui, se vuoi, considerava gli indiani un gradino immediatamente sotto i bianchi, con una accentuazione culturale, più che fisica. Invece vedeva i neri africani nel gradino più basso. Il suo approccio agli africani originari non era molto diverso da quello dei colonizzatori bianchi. Ma perché lui in realtà faceva parte di quella cultura. Lui aveva una grandissima cultura europea. E il suo erede, Nehru, ancora di più. Quando scoppiò la guerra di Spagna, non solo Nehru ci andò (anche se solo per qualche giorno), ma scrisse che "la nostra civiltà era in pericolo”. La nostra civiltà. In seguito andò anche in Russia per capire cosa fosse questa rivoluzione, e ne fu entusiasta, tant’è che portò anche in India l’idea della programmazione economica, dei piani quinquennali...
Nehru aveva studiato nelle più famose scuole e università inglesi. Anche Gandhi aveva studiato in Inghilterra. Non solo, quando andava in prigione leggeva una quantità di libri e poi, essendo un pignolo, ne elencava tutti i titoli. "Ho letto...”, due punti, e seguivano pagine e pagine di titoli di libri, ma i più svariati. Una volta pubblicai in un articolo uno di questi elenchi, era impressionante.
Hai dedicato un capitolo del libro alle biografie di Gandhi.
Volevo soprattutto mettere in evidenza un aspetto peculiare, e cioè il carattere "gandhicentrico” delle biografie di Gandhi. Il fatto che la fonte principale di tutti gli scritti su Gandhi siano le sue stesse biografie o gli scritti dei suoi seguaci ha come effetto e conseguenza che se tu leggi un libro intitolato "L’India contemporanea”, ti sembra che nell’India contemporanea ci sia solo il Partito del Congresso. Tutt’al più ci sono i conflitti all’interno del Partito, Tilak con Gandhi, Bose con Nehru, e qualche accenno agli estremisti dei primi anni del secolo, ma sono tutte comparse. Gandhi predomina.
Il problema di queste storie dell’India contemporanea è che sono costruite in maniera tale da non far capire bene al lettore come mai oggi c’è al governo uno che si chiama Modi. Per questo io ho sentito il bisogno di alcuni capitoli interamente nuovi, uno dei quali parlasse della complessità della storia indiana. Volevo far capire che il Partito del Congresso era effettivamente il filone principale, però accanto, e spesso intersecato, c’era anche quest’altro filone.
Dopo l’uccisione di Gandhi, anche se sia i suoi familiari che quelli di Tolstoj intervennero a chiedere che gli esecutori non venissero uccisi, i due responsabili furono condannati a morte (però Savarkar fu invece assolto). Questi movimenti subirono in seguito un fermo per qualche anno. Modi però è proprio l’erede di quest’altra tradizione. Un lettore di questo libro mi ha detto: "Ma lo sai che non avrei mai immaginato che quelli che governano oggi l’India sono quelli che hanno ucciso Gandhi!”. Invece in qualche modo è così.
Una curiosità: dove nasce la tua passione per l’Asia?
In effetti è una storia curiosa che fa capire come a volte il caso abbia un suo ruolo. Io mi sono laureato nel 1958 sui cattolici liberali toscani, ho fatto la tesi di laurea su Lambruschini, Capponi e Tommaseo, e poi ho continuato studiando temi di storia italiana. Appena laureato, assieme a un mio carissimo amico che si chiama Traniello, sono andato a lavorare a Torino, dove uno dei nostri professori dirigeva un’enciclopedia storica. Era stato programmato un saggio sulla Cina, una decina di paginette che doveva dare un’immagine chiara della Cina dalle origini ai giorni nostri! Ebbene, l’autore di questo saggio all’ultimo momento ci fece sapere che non ce la faceva. Mi chiamarono: "Senti, lo fai tu?”. Io non ne sapevo niente, della Cina. Mi scelsi dieci libri, di più non potevano essere perché avevo una settimana, mi chiusi in una stanza e scrissi questo pezzo, che fu apprezzato.
Poi, sempre un po’ casualmente, mi imbattei nel problema del "modo di produzione asiatico”. Me ne aveva parlato Carlo Poni, grande studioso di storia economica (forlivese, fra l’altro). Questo problema appassionò i comunisti del Comintern, della Terza internazionale negli anni Venti e Trenta, ma li appassionò al punto che Stalin alcuni li uccise. La questione era la seguente: le società umane seguono tutte la stessa strada, cioè comunismo primitivo, società schiavistica, società feudale, capitalismo, poi necessariamente comunismo? Oppure ci sono anche società che si pongono ai margini e hanno storie diverse? -Per esempio, ci sono società asiatiche, come l’India e la Cina, che hanno una tradizione di dispotismo orientale e di non proprietà privata della terra. La terra appartiene al sovrano, allo stato. Da questa discussione negli anni in cui il Comintern cominciava a intervenire creando partiti comunisti in Cina, India, dappertutto, si traevano delle conseguenze. Per esempio Trockij diceva: no, qui non c’è una società borghese, quindi bisogna lavorare a organizzare subito una società socialista, saltando una fase. Gli altri dicevano: no, non si può saltare una fase, le fasi sono quelle. E così via. Per questo si veniva alle mani, e non solo alle mani.
Quindi io scrissi un libro su questo che uscì da Einaudi e venne tradotto in tanti paesi del mondo, compresa la Svezia, il Brasile, dove grazie a internet ho scoperto che è ancora in uso in qualche università.
Devo dire che successivamente sono entrate in gioco altre cose. Intanto la curiosità per le lotte di liberazione, l’Algeria prima di tutto (sono più vecchio della generazione del Vietnam), e poi la Cina, che ci ha attirato molto, e lì ho avuto delle cadute, nel senso che sono stato abbastanza filocinese, anche se mai a livello dei marxisti leninisti, dei maoisti puri. In quegli anni scrissi un articolo sulla politica estera cinese, uscito sui "Quaderni piacentini”, che era molto critico, anche ironico, scherzoso, cosa insopportabile per i maoisti.
Questo articolo piacque molto alla rivista di Sartre, "Les Temps Modernes”, così André Gorz mi scrisse e mi chiese se potevano tradurlo. Poco dopo mi capitò di andare a Parigi, e in una libreria mi misi a sfogliare l’ultimo numero di una rivista abbastanza famosa di allora, "Tel Quel”, dove c’era un articolo sulla politica estera cinese; vidi che mi citava, non certo favorevolmente.
Non mi fece una grande impressione. Solo che continuando a sfogliarla mi accorsi che a seguire c’era un altro articolo di sole due pagine, molto fitte, intitolato "Le cas Gianni Sofri”. Questo articolo, di un maoista francese importante, me ne diceva di tutti i colori, mi accusava di soggettivismo, mi diceva tutte le cose peggiori che un maoista potesse dire. Ecco, probabilmente questa cosa mi ha salvato.
Invece l’incontro con Gandhi lo so spiegare meno bene. All’epoca si leggevano soprattutto articoli di filocinesi, nei quali si faceva spesso un paragone tra la Cina e l’India, per dire, sì, l’India è più democratica, ma in fondo che democrazia è se poi muoiono di fame? E allora si faceva vedere che l’India cresceva pochissimo mentre la Cina (dove però morivano di fame ancora di più) cresceva a ritmi molto elevati. Questa cosa cominciò a darmi un po’ fastidio, allora mi misi a leggere, a cercare di capire. Anche leggere quello che scrivevano di Gandhi gli scrittori comunisti, che lui non era che un servo della borghesia indiana, mi infastidiva. Il fastidio aumentò quando mi accorsi che i comunisti cominciarono a rivalutare poco per volta sia Gandhi sia, a livello italiano, Capitini. Ciò che più mi disturbava è che, ad esempio, scrivevano degli articoli sull’"Unità”, parlando bene di queste persone, come se l’avessero fatto sempre, dimenticandosi di dire: "Ci siamo sbagliati”. Non c’era alcuna autocritica. Il culmine si raggiunse una volta che mi invitarono a un convegno a Perugia, la città di Capitini, che voleva essere il convegno della sua definitiva "riabilitazione”, loro usano questo termine.
Capitini, tra l’altro, era stato mio professore, però io non avevo saputo approfittare di questa opportunità; per noi era un po’ una macchietta, credevamo di essere più di sinistra... Comunque, mi chiesero di fare una relazione. Accettai, mi ricordo che andai a Perugia accompagnato da un mio studente. All’arrivo, vidi questo manifesto enorme col faccione di Capitini, e poi Partito comunista, federazione di Perugia ecc. Capii che anche lì non avrebbero detto niente, avrebbero semplicemente parlato bene di Capitini come fosse uno di loro. Allora mi arrabbiai, buttai via la relazione che avevo preparato e ne feci una improvvisata lì, dicendo: "Guardate, mi fa un grande piacere che lo riabilitiate. Non accuso solo voi, accuso anche me, perché l’ho avuto come professore e purtroppo non ho saputo approfittarne...”, e quindi raccontai queste cose e c’era un grande imbarazzo, davvero un grande imbarazzo.
Insomma, è tutto molto complicato. Quello che è certo è che dopo di allora decisi che volevo capire meglio. Spero di essere riuscito nel caso di Gandhi a introdurre delle tematiche meno scontate, senza creare nuove confusioni, però non lo so sinceramente se ci sono riuscito.
Una questione che ti viene posta spesso è se Gandhi, il suo insegnamento, possa ancora servirci oggi.
Proprio in una presentazione che abbiamo fatto all’Archiginnasio, con Marcello Fois, volendo attualizzare la discussione, si è proposto di intitolarla: "È ancora attuale Gandhi in un’epoca di grande violenza?”. In quell’occasione ho ripreso in mano un altro mio libro, quello su Gandhi in Italia, il cui capitolo finale è intitolato "Gandhi e i dittatori”.
La mia tesi è che senz’altro non bisogna smettere di leggere Gandhi perché ci sono dei personaggi che sono universali, che sono difensori di valori universali e bisogna quindi abituarsi all’idea che è necessario giocare sempre su due tavoli.
Un tavolo è l’educazione dell’umanità, per usare l’espressione di Lessing: l’educazione dell’umanità per un giorno in cui sia possibile vivere in un altro modo. Cioè superare le incrostazioni che secoli e secoli di violenza hanno prodotto su di noi, quindi costruire società fondate su altri valori, su altre abitudini, su altre leggi, ecc., e questo è un tavolo. Ma contemporaneamente devi giocare su un altro tavolo, i cui giocatori sono Hitler, Al Baghdadi, Bin Laden, ecc., ecc. Continuando in questo discorso, io ho cercato di sostenere che Gandhi non ha avuto la capacità e la possibilità, per distanze geografiche e culturali, di cogliere la novità dei regimi totalitari moderni. Da qui, le lettere scritte a Hitler, cercando di esortarlo a diventare nonviolento, le lettere agli inglesi... In conclusione, secondo me, Gandhi, per combattere Hitler e salvare gli ebrei, oppure per salvare l’Europa da questi disgraziati che si fanno saltare in aria, che poi ormai sono imprevedibili, impalpabili, ecco, contro tutto questo Gandhi non serve. Malinconicamente, ma non si può non dire questo.
(a cura di Barbara Bertoncin)
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