Linguaggi e politica
Le parole per dirlo
Il termine «femminicidio» entra di diritto nel Dizionario Civile
di Sara Ventroni (l’Unità, 13.02.1013)
SIAMO NEL CUORE DI TENEBRA DI UN PASSAGGIO D’EPOCA. IN QUESTO MOMENTO LE PAROLE LANCIANO PONTI SOPRA LE MACERIE. Rinominare il mondo è un atto politico che richiede un impegno comune. Per fondare una nuova koinè è però necessario grattare la patina confortevole degli slogan. Qualche giorno fa, alla Casa dell’Architettura di Roma, in occasione dell’incontro «Le parole dell’Italia giusta», è stato presentato il nuovo alfabeto progressista. Sedici parole da declinare, per riannodare il legame tra ciò che siamo e quello che intendiamo salvare per il futuro.
Il legame tra costituente politica e alfabetizzazione civica impegna i cittadini e la classe dirigente. Stiamo per uscire da un ventennio di decomposizione delle relazioni sociali e abbiamo il dovere di divincolarci dall’abbraccio mortale di individualismo e postmodernità. Con una prospettiva euristica era nato, nel 2008, il Dizionario civile della Fondazione Italianieuropei, con voci dedicate ai rilettura dei concetti classici della politica. La stessa Fondazione ha organizzato l’incontro tra le famiglie progressiste europee, «Renaissance for Europe», che si è concluso sabato scorso a Torino.
Evidentemente è tempo di impegnare la riflessione in un nuovo orizzonte comune. Non è un caso, allora, se fa ingresso nel Dizionario civile la parola «femminicidio» (numero 1, 2013, pp. 189-90), a cura da Fabrizia Giuliani, docente di Filosofia del Linguaggio, candidata alla Camera per il Pd e tra le fondatrici del movimento Se non ora quando?
La grande mobilitazione del 13 febbraio 2011 ha messo per la prima volta in chiaro il rapporto tra la marginalizzazione politica delle donne e il declino del Paese. Una decadenza alla quale si è reagito non certo con il ricorso - come vorrebbero i detrattori al senso del decoro, ma facendo riferimento a una parola scandalosa e rivoluzionaria: dignità. Un concetto politico che non poteva più essere aggirato, nascosto o esorcizzato con nuovi détournement. La parola «dignità» andava necessariamente calata come una scialuppa nella mareggiata, per scongiurare il naufragio del Paese.
Così, si è aperta la strada al risveglio civico dell’Italia e alla costruzione di un nuovo pensiero delle donne: una voce politica pubblica e autorevole diretta e non metaforica. Perché le donne non rappresentano, le donne sono il Paese. E lo fondano, a partire dal pensiero che si fa azione politica. Di questo nesso si occupa da tempo la riflessione di Fabrizia Giuliani: dei legami tra le parole e la loro modellizzazione in concetti che agiscono nel presente.
In quest’ottica, la voce del Dizionario lancia una sfida, perché il passaggio è delicato: la nuda parola, facile preda della retorica, deve farsi carico del peso di un nuovo significato condiviso. «Femminicidio» è infatti un’espressione scomoda. Solo se assimilata senza eufemismi può diventare strumento del diritto e della politica.
Noi siamo il Paese che fino al 1975 conosceva solo l’«uxoricidio», espressione che liquidava l’identità delle donne nel loro stato civile. Fino al 1981 l’Italia ha contemplato il delitto d’onore, appannaggio dei fratelli e dei mariti, cui veniva riconosciuta l’attenuante dell’offesa subìta: la macchia al diritto proprietario del maschio di famiglia.
Fuori dalle retoriche consolatorie, la voce sul «femminicidio» si colloca nel mezzo di un presente scottante, e spesso troppo ambiguo. Non si tratta infatti di preconizzare una falsa polarità tra neomaschi buoni - cavalieri di sorelle, moglie e madri contro i maschi cattivi, femminicidi.
Come ricorda Giuliani, non siamo davanti alla semplice registrazione di un neologismo: «La difficoltà a porre accanto al confisso -cidio la parola “femmina” e non più solo uxor (moglie), che ha un referente e una valenza semantica evidentemente diversi è specchio della difficoltà di riconoscere che il crimine attiene al genere e non solo a una parte di esso. Il nodo che qui la lingua ci segnala è la resistenza ad abbandonare un tratto dell’ordine patriarcale, nel quale l’identità la dignità di una donna coincide per intero con il suo stato civile».
Accolto per la prima volta in un dizionario politico, «femminicidio» non è un lemma da consumare nelle battaglie di retroguardia. Qualche giorno fa Sara Ficocelli, nell’inserto femminile di Repubblica, guardava con un certo ottimismo all’offerta televisiva italiana del 2012, passando in rassegna i numerosi programmi che hanno a tema la violenza sulle donne.
A dirla tutta, l’affresco mediatico non ci convince del tutto. Dal mainstream delle donne-figuranti al romanzo popolare delle vittime dell’amore molesto, il passaggio è breve. Insomma, si rischia il salto mortale da uno stereotipo all’altro. Questo accade perché ancora si procede, nel pensiero e nel linguaggio comune, a due velocità. Alla libertà delle donne non è infatti finora corrisposta un’adeguata consapevolezza maschile; se non, appunto, in forma di reazione violenta o di falsa coscienza.
Non ci si salva l’anima spostando la questione dal rude paternalismo alla salvifica protezione delle sorelle e delle madri della Nazione. La retorica del passaggio dal «possesso» alla «tutela» è stata già ampiamente consumata. Siamo oltre. Per questo è necessario intenderci sul significato delle parole. Per chi non se ne fosse ancora accorto: le donne stanno scrivendo il nuovo vocabolario politico del presente.