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martedì 8 gennaio 2013 di Federico La Sala
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> DONNE, UOMINI E VIOLENZA -- Jennifer Hornsby e l’etica del linguaggio. Le trappole della comunicazione (di Carla Bagnoli)

lunedì 26 settembre 2016


Le trappole della comunicazione

di Carla Bagnoli (Il Sole-24 Ore, Domencica, 25 settembre 2016)

«Come i signori della giuria converranno, quando una donna dice no, non intende sempre dire di no». Sono le parole pronunciate dal giudice David Wild durante un processo per stupro, secondo quanto riporta il Sunday Times del 12 dicembre 1982. In una serie di saggi seminali e in volumi come The Cambridge Companion to Feminism in Philosophy (2000), Jennifer Hornsby ha richiamato l’attenzione sugli usi discriminatori del linguaggio.

Hornsby è docente del Birkbeck College di Londra e Emeritus Fellow del Corpus Christi College di Oxford, è stata presidente della Aristotelian Society, ed è membro dell’Accademia norvegese delle scienze e delle lettere. Come J.L. Austin, Hornsby ritiene che con le parole si fanno cose e che proferir parola sia un’attività, ma a differenza di molti studiosi del settore ha messo a fuoco le implicazioni epistemologiche ed etiche della filosofia del linguaggio. «Nei miei lavori ho suggerito che ha senso prestare attenzione alla dimensione etica del linguaggio. Ci sono casi interessanti in cui lo studio delle parole e del loro uso mettono in rilievo questioni etiche fondamentali. Per esempio, pensiamo agli insulti e alle espressioni degradanti. È difficile dire come renderne conto dal punto di vista semantico. Attraverso la critica degli approcci prevalenti, ho cercato di mostrare che conviene trattare queste parole come elementi di pratiche sociali che sono suscettibili di cambiamento».

L’aspetto forse più originale degli studi di Hornsby riguarda proprio la dimensione interattiva e sociale del linguaggio. «Quando si proferisce parola, si compie un’azione. Anzi, ci sono molte azioni contenute in tali proferimenti, e ci sono molti modi di identificare tali azioni o di raggrupparli. Ordinare e classificare questi tipi di azioni ci serve a organizzare in modo sistematico i dati della comunicazione linguistica». Quando si dice qualcosa si presume di essere intesi per quello che si dice.

Cosa deve succedere perché il no deciso di una donna che intende esprimere il rifiuto venga frainteso in modo sistematico? Secondo Hornsby ciò che viene a mancare in questi casi è la reciprocità. «La reciprocità è la condizione di base della comunicazione linguistica. Si ha quando gli interlocutori riconoscono reciprocamente che le rispettive parole sono da prendere sul serio. È la reciprocità che garantisce il successo degli atti linguistici come il rifiuto o il diniego. Quando c’è reciprocità, ci sono cose che gli interlocutori fanno semplicemente ascoltandosi. Chi ascolta è un elemento integrante e complementare dell’azione linguistica».

Perciò quando un parlante fa esattamente ciò che intende fare scegliendo le parole, quando le sue parole hanno successo e conseguono l’effetto inteso, ciò dipende anche e in una larga misura dalla disposizione di chi ascolta. In condizioni normali, le parole hanno il significato inteso da chi le pronuncia ed è grazie a questo che il parlante può agire con le parole. Si può dire che la comunicazione verbale avviene sullo sfondo di una certa relazione armonica tra gli interlocutori, nella quale si dà per scontato che le parole hanno il significato che hanno.

Chi parla si assume la responsabilità di quello che dice e che fa con le parole. Ma l’effetto delle sue parole, ciò che in effetti si trova a fare usandole, può essere frainteso, storpiato o tragicamente ridotto al silenzio. «La persona ridotta al silenzio non ha il potere di fare ciò che intende fare con il linguaggio». È più difficile identificare e difendersi da queste forme di discriminazione, anche in società democratiche e pluraliste.

A differenza dei casi più eclatanti di discriminazione, le vittime ridotte al silenzio non sono soggetti socialmente invisibili e mantengono il diritto di parola. Esercitano tale diritto e vengono ascoltate. Eppure, le loro parole non significano ciò che esse intendono. Anzi, le loro parole testimoniano contro le loro intenzioni. È così che una donna vittima di stupro è diventata l’imputata principale. Come teste è screditata perché le sue parole sono senza valore, non contano più. La violenza che si fa all’altro quando lo si riduce al silenzio, è particolarmente umiliante e degradante, perché rende l’offesa invisibile ed espropria gli agenti degli strumenti essenziali per fare ciò che intendono. Perciò bisogna prestare attenzione alle condizioni che facilitano oppure ostacolano la reciprocità.

Hornsby osserva anche che le pratiche attraverso le quali si riduce al silenzio qualcuno hanno carattere cumulativo e generano aspettative normative e sociali i cui effetti hanno una lunga durata. Alcune pratiche e certi prodotti culturali come la pornografia, il sessismo di certe istituzioni e la misoginia di certe tradizioni, possono avere un ruolo determinante nello sminuire e indebolire lo status delle donne.

Secondo Hornsby «la diffusione di questa concezione svilente delle donne può avere l’effetto di rendere la donna una parte relativamente priva di potere nello scambio comunicativo, poiché mina le basi della reciprocità, che è precondizione di una comunicazione di successo», nella quali tutti si dicono quello che intendo[no] dirsi.


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