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> DONNE, UOMINI E VIOLENZA --- La claque dei giustizieri. Vasto, una tragedia italiana che ci permette di dirci chiare certe cose oscure (di Francesco Merlo).

venerdì 3 febbraio 2017

La claque dei giustizieri, una tragedia italiana

L’omicidio di Vasto e la nostra violenza: questa vendetta è il contrario della giustizia e del sentimento d’amore

di FRANCESCO MERLO (la Repubblica, 03 febbraio 2017)

STIAMO attenti al fascino ambiguo della passione e della follia romantica. Purtroppo c’è solo l’odio malato in questa vendetta di Vasto che è il contrario sia della giustizia sia del sentimento d’amore. Ed è orribile il dettaglio, da reality macho-noir, della pistola che l’assassino ha deposto come un mazzo di fiori sulla tomba della moglie vendicata, un gesto teatrale da carogna per bene, da giustiziere spietato ma di cuore, virile ma lieve, duro per necessità.

La verità è che, nella tragedia di Vasto, terribile ed esemplare in questa Italia eccitata e imbruttita dalla rabbia sociale, c’è la forte complicità ambientale. C’è la grande responsabilità del coro, non solo virtuale, il "dalli al colpevole" che è in libertà, "una claque di morbosi", come l’ha definita il procuratore di Vasto, che ha istigato Fabio Di Lello a farsi giustizia da solo, a sentirsi come quel gladiatore cinematografico di cui ha postato la foto su Facebook.

E di nuovo dobbiamo fare attenzione perché è capitato a Vasto, ma poteva capitare in qualsiasi altra parte d’Italia di sentire l’incitamento e l’applauso alla giustizia fai da te. Vasto, che è un bellissimo paese con la malinconia e la sapienza del mare Adriatico, non è certo abitato da sadici. Evidentemente anche lì si è fatto strada il livore, "un’incomprensibile campagna di giustizia", ha detto il procuratore Giampiero Di Florio: "Questa claque doveva aiutare Fabio a venirne fuori, e invece ha alimentato, giorno dopo giorno, il suo sentimento di vendetta".

Dunque, incitato e protetto da manifestazioni, fiaccolate e istigazioni all’odio che duravano da sette mesi, Fabio Di Lello, calciatore e panettiere molto popolare, si è sentito protagonista di un film, di un fumettone, di una canzone maledetta o di un manga giapponese. Non si è accorto che si era invece infilato nella nevrosi caricaturale raccontata da Vincenzo Cerami e Alberto Sordi (Il borghese piccolo piccolo) e nella paccottiglia eroica dell’assassino per bontà. Dunque si è procurato la pistola, ha aspettato in strada Italo D’Elisa, quel ragazzo di 22 anni che era passato col rosso e aveva investito e ucciso la sua Roberta. L’omicidio colposo gli sembrava una raffinatezza e una trappola giuridica, lo voleva in galera, lo voleva morto e dunque, con la miserabile solidarietà della parte peggiore e più plebea del paese, ha interpretato il ruolo del cane di paglia, del Charles Bronson, della 44 Magnum per l’ispettore Callaghan o del bravo ragazzo di paese costretto a surrogare l’imbelle magistratura e a mettere le sue buone intenzioni al servizio del peggio, del sangue chiama sangue, a farsi selvaggio che emette la sentenza ed esegue la condanna perché non crede alla giustizia delegata, ai giudici e ai tribunali che non capiscono: tre colpi di pistola contro quel povero ragazzo, il quale - speriamo che Fabio Di Lello cominci a rendersene conto - è molto più vittima della sua vittima perché lui ha avuto un carnefice volontario, freddo, premeditato e pure infiammato da una folla fanatica che ancora lo acclama e lo celebra sui social, mentre lei, la povera Roberta, è morta in ospedale, il giorno dopo l’incidente. Stava sul motorino e quell’altro l’ha investita: è passato col rosso, ma sicuramente non voleva ucciderla e solo il processo avrebbe potuto stabilire quanta colpa c’era stata nella scelta di non rispettare il semaforo.

Il procuratore di Vasto ha spiegato che era giusto lasciare libero Italo D’Elisa e che anzi non si poteva proprio arrestarlo, perché si era fermato a soccorrere Roberta, non era drogato, non aveva bevuto, non correva. Era passato con il rosso, ma questo non basta perché la libertà va rispettata, anche se meno di quanto va rispettata la vita.

Si può capire che un marito senta dentro di sé la pulsione di sparare al mondo se sua moglie viene uccisa per strada. Ma è una pulsione oscura e primitiva che va tenuta a bada, specie con il passare del tempo, con la riflessione, con l’aiuto dell’ambiente e della civiltà diffusa. La forza della Giustizia è il distacco; ha sempre bisogno di una distanza e non può confondersi con il legittimo dolore dei familiari e con la loro rabbia, che è comprensibile ma non può ispirare il codice penale né consentire che il castigo diventi delitto.

Anche noi cronisti che raccontiamo, interpretiamo e ci infiliamo dentro i fatti dovremmo tenere a bada tutto ciò che dà plausibilità al mito reazionario della giustizia privata, e stare attenti a evocare l’amore, le canzoni di De André, i presunti buoni sentimenti dell’individuo che precede lo stato, salta i processi e i tribunali, diventa giudice e boia. E non ci sono scuse per le reazioni sguaiate, eccessive e convulse della folla che ha sempre torto quando invita all’odio, quando si fa tribunale cieco. Andate a rivedere quel video (http://larep.it/2kmQirk) girato da Andrea Lattanzi tre giorni fa, prima della sentenza che avrebbe condannato a 7 anni Mauro Moretti per il disastro colposo di Viareggio. C’è un una piccola folla che ritma gli insulti - "pezzo di m..." - contro Moretti. Sono così brutti da vedere che forse, chissà, gli stessi scalmanati, se si guardassero dall’esterno, capirebbero che lì, in quei cori, ci si smarrisce e si smarriscono le ragioni fondanti della civiltà dei diritti. Ebbene, proprio lì succede quel che non ti aspetti: interviene Marco Piagentini, che nella strage perse moglie e due figli. Determinato e cortese, li ringrazia per la solidarietà, ma li invita a smetterla: "Le offese no". Ecco: se qualcuno lo avesse fatto anche a Vasto, chissà ...

Insomma, è una tragedia così estrema questa di Vasto che ci permette di dirci chiare certe cose oscure. E, per esempio, che ci sono pulsioni ancestrali e profonde che tutti abbiamo e alle quali, a caldo, ci piacerebbe abbandonarci. Ebbene, solo la legittima difesa, che peraltro richiede quel coraggio che non c’è mai nella viltà dell’agguato, ci consentirebbe di fare le cose che non si fanno e che a volte tutti vorremmo poter fare. Solo la legittima difesa rende giusti il cazzotto che non diamo, la "bella lezione" che non impartiamo, la violenza che non liberiamo, il colpo di pistola che non spariamo.


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