Nella direzione dell’indicazione relativa al pensare l’ "edipo completo"(Freud), non è male riflettere sulla lettera a cui risponde U. Galimberti ( D La Repubblica delle Donne del 4 novembre 2006, p. 434)
Scrive Freud: "Ho assistito a fenomeni di reciproca coercizione a proposito di giovani donne che si ammalavano mentre assistevano un parente ammalato che di solito era il padre"
Risponde Umberto Galimberti
Erede di una non trascurabile fortuna, agricola e immobiliare, gestita malissimo e in parte dissipata, mio padre, 83 anni, è affetto da una malattia senile degenerativa del sistema nervoso. Non credo ci siano altri figli che abbiano fatto così tanto per un genitore, a partire da quando, oltre 30 anni fa, ci coinvolse in un suo adulterio, sicuramente non l’unico, ma forse il più odioso. La gestione economica è stata sempre più irresponsabile e dissipatoria, le donne e ragazze che inseguiva erano sempre più giovani, il suo ruolo in famiglia, anche con i nipoti, sempre più devastante.
Tre anni fa lo abbiamo costretto a donare tutti i suoi beni immobili (su cui continuava ad accendere ipoteche e debiti assortiti) in cambio di un vitalizio e del pagamento di tutti i suoi debiti (o almeno quelli di cui siamo venuti a conoscenza finora), possibile grazie a un’eredità ricevuta da mia madre. Gli abbiamo pagato tutte le cure specialistiche - analisi, visite, terme, interventi - che lui stesso voleva, senza mai riuscire, per suo rifiuto, a portarlo da un neurologo o simili, gli paghiamo il mantenimento nella grande (e costosa) casa di famiglia a 550 chilometri da dove abitiamo tutti noi, compreso il servizio domestico. Su sua richiesta, abbiamo trovato una badante straniera e abbiamo fatto le pratiche per la sua regolarizzazione. Mia madre, nonostante tutto quello che le ha fatto passare, è ancora e sempre disponibile a venirgli incontro, ma il suo ringraziamento è sempre costituito da un capriccio, un dispetto, l’apertura di un nuovo fronte conflittuale. Io ho 58 anni, un marito impegnato (e impegnativo) e due figli miei (più due suoi) fuori casa che, come tutti i giovani di oggi, vivono modestamente faticando tanto e che vorrei aiutare di più, sia economicamente che come tempo ed energie. E invece tutte le mie energie e il mio tempo libero sono risucchiati da questo vecchio bisbetico, insaziabile e odioso, di cui sono arrivata a desiderare la morte, con più forza ogni giorno che passa.
Come le capisco tutte le tragedie familiari che riempiono le cronache: so benissimo a che livelli di odio si può arrivare quando un familiare sembra risucchiarti la vita stessa. A volte penso all’insieme della nostra famiglia come a un gruppo di pianticelle che non riusciranno mai a vedere il sole finché non sarà caduta la grande quercia che le sovrasta e le tiene al buio.
Dell’affetto che pure avevo per lui, dei bei ricordi della mia infanzia e giovinezza, non è rimasto più niente, ora c’è solo la paura che ogni giorno porti un nuovo problema, questo odio che mi avvelena e il desiderio che gli succeda qualcosa che gli impedisca definitivamente di nuocere, qualcosa che farei succedere io stessa se non sapessi che così il sole non lo vedrei mai più.
È possibile che non si possa fare nulla? Ci dicono che per avere un trattamento sanitario obbligatorio o l’interdizione ci vogliono fatti gravissimi (di sangue) e comunque una causa molto lunga, non compatibile con la sua età. Cosa dobbiamo fare per non morire prima di lui? Lettera firmata
Purtroppo non c’è alcuna legge che tuteli i figli (quando questi non sono più in tenera età) dalla devastazione di genitori che nella loro vita non hanno considerato altro che se stessi, nella forma più deprecabile dell’incuria e dell’egoismo, per cui bisognerebbe anche circostanziare quel comandamento che chiede di onorare il padre e la madre quando questo "onorare" coincide con la distruzione di sé.
Eppure non manca un’ampia letteratura in proposito: dal mito di Crono che divora i suoi figli per timore che questi lo spodestino alle origini della psicanalisi che nasce proprio dall’osservazione, da parte di Freud, di alcune donne, da lui definite "isteriche", che avevano la vita devastata proprio per essersi prese cura a tempo pieno del padre.
La visione prettamente materialista che la cultura cattolica ha della vita, dal momento che la visualizza esclusivamente come evento biologico, produce quei sensi di colpa che lei non confessa, ma inevitabilmente prova quando si augura che la "grande quercia" muoia per concedere un po’ di luce e un po’ di vita alle pianticelle che ha generato. È un sentimento questo che lei ha tutto il diritto di permettersi, a meno che non consideri il diritto della sua vita secondario rispetto al diritto di suo padre. Questo ovviamente non le consente di passare all’atto, ma le permette di collocare alla periferia della sua anima quel padre che, finché è al centro, le proibisce la vita. E se è vero che bisogna amare il prossimo come se stessi è altrettanto vero che neppure la massima evangelica ci chiede di amarlo più di noi stessi.
Che ci siano dei padri e delle madri che mettono al mondo dei figli non per dare ad essi la vita, ma per darla a se stessi tramite loro è una storia vecchia quanto il mondo, se dobbiamo dar credito a tutta quella letteratura sul parricidio che, per quanto aberrante, è un tentativo di rimettere nel suo corso la natura, la quale prevede che i vecchi si congedino, affinché coloro che hanno generato possano avere una vita che non sia solo quella consentita dall’ombra della "grande quercia" che non lascia filtrare un solo raggio di sole. Altro non le so dire, però pubblico la sua lettera che mi pare paradigmatica per riflettere che la vecchiaia non è solo saggezza, spesso è devastazione.