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Per il Logos - e il dialogo, quello vero ... oltre la vecchia "cattolica" alleanza costantiniana ("Giocasta" - "Edipo"))

UN NUOVO UMANESIMO?! Pensare l’ "edipo completo"(Freud), a partire dall’ "infanticidio"!!! La lezione di Melanie Klein rimeditata da Julia Kristeva, in un commento di Manuela Fraire - a c. di pfls

Per andare oltre la vecchia "cattolica" alleanza Madre-Figlio (e portare avanti il programma illuministico kantiano: diventare maggiorenni), è necessario (sia per l’uomo sia per la donna) non solo il "parricidio" ma anche il "matricidio".
mercoledì 8 novembre 2006 di Federico La Sala
Amare al cospetto della madre
«Génie féminin». Dopo Colette e Arendt, «Melanie Klein. La madre, la follia» di Julia Kristeva. Relazione d’oggetto. Il matricidio immaginario nella lettura di Kristeva del pensiero kleiniano
di Manuela Fraire (il manifesto, 29.10.2006)
Julia Kristeva, nel libro tratto da una serie di lezioni tenute all’Università Parigi VII (Melanie Klein. La madre, la follia, Donzelli, pp. 291, E 23,50) traccia un profilo inedito della grande psicoanalista centrato sulla (...)

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> Pensare l’ "edipo completo"(Freud), a partire dall’ "infanticidio"!!! Per andare oltre la vecchia "cattolica" alleanza Madre-Figlio (e portare avanti il programma illuministico: diventare maggiorenni), è necessario (sia per l’uomo sia per la donna) non solo il "parricidio" ma anche il "matricidio". La lezione di Melanie Klein rimeditata da Julia Kristeva, in un commento di Manuela Fraire.

sabato 9 dicembre 2006

Madri divise tra amore e odio verso i figli

di Umberto Galimberti (“la Repubblica”, 28 giugno 2002)

Il ritmo inquietante con cui, nel nostro tempo, si succedono i casi di infanticidio non ci consente più di relegare queste tragedie nella «casistica psichiatrica» e qui liquidarle nel perfetto stile della rimozione. La ricorrenza di simili eventi, ormai così frequente, obbliga tutti noi a una riflessione più seria, che forse può prendere le mosse da questa semplice domanda: è cambiato qualcosa nel rapporto madri e figli che la retorica dei buoni sentimenti custodisce e difende come la forma più sacra e indubitabile delle relazioni d’amore?

La risposta è: in parte no e in parte sì, ma entrambe le parti vanno esplorate, per scoprire e per rendersi conto, là dove nulla è cambiato, che l’amore materno non è mai solo amore perché ogni madre è attraversata dall’amore per i figli ma anche dal rifiuto dei figli, e là dove qualcosa è cambiato nel modo odierno di fare famiglia, si tratta di capire perché il rifiuto assume così di frequente la forma del gesto omicida.

1. Là dove nulla è cambiato. Incontriamo l’eterna ambivalenza del sentimento materno che solo il nostro terrore di sfiorare qualcosa che appartiene alla sfera del sacro non ci fa riconoscere. E così finiamo con il sapere troppo poco di noi e della potenza dei nostri moti inconsci. La retorica dei buoni sentimenti è una spessa coltre che stendiamo sull’ambivalenza della nostra anima, dove l’amore si incatena con l’odio, il piacere con il dolore, la benedizione con la maledizione, la luce del giorno con il buio della notte. Perché nel profondo tutte le cose sono incatenate e intrecciate in un’invisibile disarmonia. E scrutare l’abisso che queste cose sottende è compito ormai trascurato della nostra cultura che con troppa semplicità distingue il bene e il male come se i due non si fossero mai incontrati e affratellati.

Condannare queste madri per i loro gesti è già nelle cose stesse, nel parere di tutti, e rasenta i limiti dell’ovvio. Ma in ogni condanna che rivolgiamo agli altri c’è un volgare rigurgito di innocenza per noi stessi guadagnato a poco prezzo. Con la condanna, infatti, vogliamo soprattutto evitare di vedere in noi stessi, a livelli più sfumati senz’altro, non così tragici, la stessa ambivalenza che da sempre accompagna i nostri sentimenti per i figli, figli d’amore certo, ma anche di fastidio e in alcuni casi di odio. Non ci sarebbero tanti disperati nella vita se tutti, da bambini, fossero stati davvero amati e solo amati. E invece così non è, e non lo è soprattutto per la donna che, con la possibilità di generare e di abortire, sente dentro di sé, nel sottosuolo mai esplorato della sua coscienza, di essere depositaria di quello che l’umanità ha sempre identificato come «potere assoluto» : il potere di vita e di morte.

Nella donna, infatti, molto più marcatamente che nel maschio, si dibattono due soggettività antitetiche perché una vive a spese dell’altra. Una soggettività che dice «Io» e una soggettività che fa sentire la donna depositaria della «specie» . Il conflitto tra queste due soggettività è alla base dell’amore materno, ma anche dell’odio materno, perché il figlio, ogni figlio vive e si nutre del sacrificio della madre: sacrificio del suo tempo, del suo corpo, del suo spazio, del suo sonno, delle sue relazioni, del suo lavoro, della sua carriera, dei suoi affetti e anche amori, altri dall’amore per il figlio.

Questa ambivalenza del sentimento materno generato dalla doppia soggettività che è in ciascuno di noi, e che il mondo delle madri conosce meglio del mondo dei padri, va riconosciuto e accettato come cosa naturale e non con il senso di colpa che può nascere dall’interpretare come incompiutezza o inautenticità del sentimento quello che è la sua naturale ambivalenza. Qui da Medea, che, come vuole la tragedia di Euripide, uccide i figli che ha generato esercitando il potere di vita e di morte che ogni madre sente dentro di sé, alle madri di oggi che uccidono i figli da loro stesse nati, nulla è cambiato. Perché questa è la natura del sentimento materno, e, piaccia o non piaccia, come tale va riconosciuto e accettato.

2. Là dove qualcosa è cambiato. E’ la forma della famiglia: troppo nucleare, troppo isolata, troppo racchiusa nelle pareti di casa che, divenute troppo spesse, la recingono e la secretano, creando l’ambiente adatto alla disperazione, che non è la depressione. Nel chiuso di quelle pareti ogni problema si ingigantisce perché non c’è un altro punto di vista, un termine di confronto che possa relativizzare il problema, o che consenta di diluirlo nella comunicazione, quando non di attutirlo nell’aiuto e nel confronto che dagli altri può venire. Il nucleo familiare è diventato oggi un nucleo asociale. Quel che succede in casa resta lì compresso e incomunicato. Quando si esce di casa, ciascuno indossa una maschera, quella convenuta, il cui compito è di non lasciar trasparire proprio nulla dei drammi, delle gioie o dei dolori che si vivono dentro quelle mura ben protette.

La tutela della privacy ha proprio nella famiglia il suo cono d’ombra. La non ingerenza nel privato, se da un lato è il fondamento della nostra libertà personale, è anche un fattore di disinteressamento reciproco, e quindi una macchina formidabile che crea solitudine e, nella solitudine quell’ingigantimento dei problemi che la comunicazione sa ricondurre nella loro giusta dimensione, mentre l’isolamento rende di proporzioni tali da farli apparire ingestibili. Fino a quel limite dove l’unica via d’uscita sembra quella della soppressione violenta del problema, non importa in quale modo.

L’incapacità di gestire un regime familiare, dove le difficoltà oggettive possono mescolarsi con i fantasmi della mente e con le speranze deluse, produce una tragedia che forse poteva essere evitata se quel nucleo familiare si fosse aperto e reso permeabile allo scambio sociale, come accadeva presso i primitivi dove i figli erano figli di tutte le donne del villaggio, come accadeva fino a un paio di generazioni fa anche da noi, dove la povertà facilitava la socializzazione e l’aiuto reciproco in quell’incessante andare e vieni tra vicini di casa che rendeva impossibile quando non addirittura innaturale l’isolamento della famiglia.

L’isolamento riduce, e per via della riduzione, potenzia gli oggetti d’amore che per la donna, relegata nella clausura della famiglia, sono i figli e il marito. Qui le dinamiche, oggi, si sono complicate terribilmente, perché l’uomo ha perso il potere che una volta aveva come autorità riconosciuta in famiglia. Bene o male che fosse, forse più male che bene, ma così era, oggi l’uomo, dimessa l’autorità, stenta a trovare un ruolo in famiglia che non sia quello un po’ estrinseco di chi porta i soldi a casa. Per il resto lavora fuori casa e, stante la liceità dell’odierno costume, tende a erotizzare anche fuori casa. All’interno della casa resta solo l’amore incondizionato per i figli, più come idea, più come sentimento che come pratica quotidiana, di solito relegata alla moglie o all’esercito delle baby-sitter. La moglie è lì, spesso solo come anello che chiude il nucleo isolato del sistema famiglia.

E’ a quel punto che i figli diventano armi di ricatto. Dai ricatti che ogni giudice preposto alle separazioni conosce nei minimi e orrendi particolari, al ricatto estremo che solo il potere di vita e di morte, che è alla base del sentimento materno, conosce nella atroce radicalità che Euripide così descrive: «Uccidere le tue creature: ne avrai il coraggio?», chiede il Coro a Medea. E Medea risponde: «È il modo più sicuro per spezzare il cuore di mio marito» .

Scenari paurosi dell’animo umano che vanno riconosciuti e accettati, perché se non sono portati alla coscienza, si traducono facilmente in gesto, in gesto omicida. Non perché improvvisamente si è impazziti, ma perché da sempre si è vissuto con dei sentimenti che erano ignoti a noi stessi, e nell’isolamento impenetrabile in cui oggi vivono le famiglie, non si è avuto modo di comunicarli e, nella comunicazione, portarli alla coscienza e così diluirli, come sempre è avvenuto da che mondo è mondo e come oggi non avviene più.


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