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Mondo

Per Saddam Hussein arriva la condanna a morte. L’ex rais: ’’Dio è grande’’

Ma non verrà impiccato. Ci sarà l’appello
domenica 5 novembre 2006 di Emiliano Morrone
Nella foto sotto, Saddam Hussein durante la lettura della sentenza (SkyTg24)Baghdad, 5 nov. (Adnkronos/Ign) - Saddam Hussein è stato condannato a morte per impiccagione, per crimini contro l’umanità nella strage di 148 sciiti compiuta a Dujail nel 1982 come ritorsione ad un attentato contro lo stesso ex presidente iracheno. Il verdetto (tutte le condanne) arriva a poco meno di tre anni dalla cattura e a quasi un anno dall’inizio del processo.
’’Allah è grande, lunga vita al popolo (...)

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venerdì 29 dicembre 2006

Saddam un processo senza giustizia

Secondo il governo Usa, impiccare l’ex dittatore dimostrerebbe che in Iraq il diritto è subentrato alla violenza e al sopruso. In realtà, nulla di più falso

di CARLO FEDERICO GROSSO *

Dopo un processo politico dei vincitori sui vinti, una esecuzione di Stato. In questo modo Saddam Hussein sembra avviarsi verso l’epilogo della sua esistenza. Secondo il governo americano, l’impiccagione dell’ex dittatore dimostrerebbe che in Iraq il diritto è subentrato finalmente alla violenza e al sopruso. In realtà, nulla di più falso: le irregolarità del processo, le violazioni dei diritti della difesa, la stessa scontata irrogazione della pena capitale dimostrano quanto si sia stati lontani, a Baghdad, da quel processo giusto che i paesi civili assicurano anche ai peggiori criminali e che sarebbe stato forse assicurato se, in luogo di un tribunale iracheno, a giudicare il tiranno per i suoi eccidi fosse stato chiamato, come molti auspicavano, un tribunale internazionale. Né varrebbe obiettare che l’ex dittatore doveva essere per forza giudicato dalla società contro la quale aveva commesso i suoi crimini, l’unica competente, per diritto naturale, a valutare le sue nequizie. Il processo dei vincitori sui vinti non è infatti, pressoché mai, processo giusto, essendo inevitabilmente condizionato dagli odi accumulati, e pertanto intriso di sentimenti di vendetta.

Ragioni politiche e problemi giuridici

In una lettera al suo popolo Saddam ha dichiarato che morirà da martire e ha invitato a non ricorrere all’odio indiscriminato contro coloro che l’hanno mandato a morte. Un colpo di teatro, che tende verosimilmente a smuovere a suo favore l’opinione pubblica interna e internazionale. Il discorso concernente l’esecuzione della condanna si sposta pertanto, ora, dal terreno giuridico a quello politico, in un groviglio in cui le ragioni della paura o della convenienza interna irachena si sommeranno verosimilmente alle pressioni e agli interessi politici internazionali. L’esecuzione di Stato potrà pertanto, forse, essere bloccata.

In questa situazione le eventuali ragioni politiche si stanno tuttavia intrecciando con i problemi giuridici dell’esecuzione penale irachena. La condanna a morte non potrà essere eseguita se non sarà controfirmata dal presidente Talabani: se egli non apporrà la sua firma, l’impiccagione sarà pertanto sospesa, in un contesto in cui ritardare l’esecuzione penale potrebbe significare la salvezza della vita di Saddam. La decisione se ritardare o meno l’impiccagione è, ovviamente, politica, e dovrà essere presa considerando l’impatto che l’esecuzione della pena capitale potrà avere sulla situazione interna irachena e sulla sicurezza internazionale.

Crimini ancora più gravi in attesa di giudizio

Eppure, come ha scritto ieri su Repubblica Antonio Cassese, oggi in Iraq falchi e colombe si combattono sul terreno dell’interpretazione giuridica prima ancora che su quello della politica: discutendo se il termine di 30 giorni entro cui le sentenze capitali devono essere eseguite decorra dal momento della ratifica del presidente e non sia perentorio, ovvero dal momento della decisione, e debba essere rispettato pena la decadenza dello stesso processo. Un modo per cercare di caricare il presidente di una responsabilità giuridica enorme ove dovesse optare per la mancata immediata ratifica della decisione della Corte di Appello.

Processo dei vincitori, scarso rispetto per le garanzie processuali, condanna a morte comunque ingiusta. Impiccando Saddam non si farebbe d’altronde sicuramente giustizia anche per un’altra ragione. L’ex dittatore è sottoposto ad altri processi, nei quali si discute di crimini ancora più gravi di quello per cui è già stato condannato: il genocidio dei curdi, l’uso di armi chimiche nel conflitto con l’Iran, l’aggressione del Kuwait. Questi processi, con la sua morte, si bloccherebbero. Cadrebbe pertanto una delle poche ragioni per le quali processi del tipo di quello testé celebrato potrebbero essere in qualche modo giustificati: tentare di fare comunque luce su episodi gravi, individuando le relative responsabilità. Con la morte di Saddam svanirebbe in larga misura anche questa opportunità.

* La Stampa, 29/12/2006


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