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S.O.S . GAZA

In memoria di YITZHAK RABIN. Dal cuore di TEL AVIV, e di ISRAELE, un APPELLO per la PACE e il dialogo con la PALESTINA. Il discorso tenuto da David GROSSMAN.

Si rivolga ai palestinesi, signor Olmert, non continui a cercare ragioni per non dialogare con loro.
lunedì 6 novembre 2006 di Federico La Sala
[...] Com’è possibile che un popolo dotato di energie creative e inventive come il nostro, che ha saputo risollevarsi più volte dalle ceneri, si ritrovi oggi, proprio quando possiede una forza militare tanto grande, in una situazione di inerzia e di impotenza? Situazione in cui è nuovamente vittima, ma questa volta di sé stesso, dei suoi timori, della sua disperazione e della sua miopia.
Uno degli aspetti più gravi messi in luce dalla guerra è che attualmente non esiste un leader in (...)

In risposta a:

> In memoria di YITZHAK RABIN. ---- Grossman: "Così ho vinto la paura dell’altro". Lo scrittore israeliano, i suoi viaggi e il suo impegno per il dialogo.

lunedì 19 ottobre 2009


-  Lo scrittore israeliano, i suoi viaggi e il suo impegno per il dialogo

-  Il mondo non è un nemico
-  Grossman: "Così ho vinto la paura dell’altro"

-  Mi piace il cambiamento, il movimento rapido Viaggiare ti porta a vivere nuove realtà
-  Bisogna avere il coraggio di capire, bisogna non temere di andare nei posti più dolorosi

di Alberto Stabile (la Repubblica, 19.10.2009)

GERUSALEMME. David Grossman, la trama di A un cerbiatto somiglia il mio amore è incentrata su un viaggio in Galilea. In altri suoi lavori compare il tema del viaggio.

Che cosa rappresenta per lei? È una fuga dalla realtà o un incerto percorso verso una migliore conoscenza dell’altro e di se stesso?

«Un viaggio non è mai una fuga, penso piuttosto che ti costringa ad affrontare nuove realtà, nuove persone, evochi nuovi elementi dentro di te. Mi piace il cambiamento, il movimento rapido. Il viaggiare è un continuo porsi delle domande, perché in un viaggio le condizioni cambiano ogni momento, non sei preparato. Ricordo quando camminavo in Galilea... Non avevo mai fatto prima una cosa del genere, camminare da solo, e per così grandi distanze. Ho subito capito che il viaggio mi aveva cambiato: il fatto stesso che fossi stato in grado di farlo, la gente che ho incontrato, le mie conversazioni con loro, essere attento a cose a cui prima non ero sensibile, come fiori, animali, odori, colori... Tutte queste cose mi erano completamente nuove».

Quando lei dice che un viaggio non è mai una fuga è perché, in fondo, si parte sempre per ritornare?

«Forse all’inizio si tratta sì di una fuga da qualcosa, ma pensi al profeta Giona, nella Bibbia. Lui scappava, voleva scappare dalla profezia che Dio gli aveva imposto, ma immediatamente si è trovato in una situazione così diversa e così tanto più drammatica di quella da cui stava fuggendo. Sto pensando ad altri libri che ho scritto e che sono anche libri "che corrono". Il primo libro che ho pubblicato in ebraico si chiamava Ratz, L’uomo che corre, e in Vedi alla voce: amore vi è anche il viaggio dei salmoni nel mare. So di avere questa duplicità in me, perché di solito la mia esistenza è composta da situazioni molto "passive": posso stare seduto delle ore e scrivere, poi, all’improvviso sento la necessità di movimento, e il bisogno di uscire, di incontrare gente e di espormi al mondo».

È una necessità sia fisica che psicologica?

«Penso di sì, anche se la gran parte della mia ispirazione mi viene quando sono a casa, seduto nella mia stanza. Non so più dove l’ho letto, penso che sia stato Albert Camus, che una volta disse che se una persona fosse stata a contatto con il mondo per un giorno e poi in seguito fosse stato imprigionato per il resto della sua vita, avrebbe avuto comunque abbastanza materia da masticare, da digerire».

Esiste in letteratura un viaggio che le ha lasciato un segno?

«Non so. Da bambini, ovviamente, abbiamo tutti letto Jules Verne, ma da adulto... mi ricordo del libro di Xavier de Maistre, un savoiardo vissuto nel Regno di Sardegna nel XVIII secolo, che fu rinchiuso nella sua stanza per 42 giorni e scrisse un libro meraviglioso, intitolato Viaggio intorno alla mia camera. Se una persona è abbastanza aperta di mente, non ha bisogno di molte attrattive esterne. Posso pensare inoltre all’Odissea, al ritorno a casa, a Itaca. Mi chiedo quanto della cultura occidentale sia influenzata dalle storie di Agamennone e della Guerra di Troia, di Giasone e degli Argonauti, e ovviamente di Ulisse. Anche l’Ulisse di Joyce è un viaggio. E quanto gli scrittori abbiano viaggiato, fra l’altro molti di loro proprio in Italia. Sto pensando ai viaggi in Italia di Goethe, di Thomas Mann, di Virginia Wolf...».

È vero, l’Italia è uno dei paesi più visitati del mondo, ma Gerusalemme non è da meno.

«Sì, Gerusalemme è come una calamita. Vi sono diverse città nel mondo che sono come un magnete e penso che questi siano luoghi che, quando li visiti, ti cambiano qualcosa dall’interno. L’ho sentito quando sono stato a Praga, che qualcosa dentro di me era cambiato. E lo stesso mi è successo al Cairo».

In che senso, esattamente?

«Sono arrivato in un paese che era stato un nemico. Avevo preso parte alla guerra contro l’Egitto (Guerra del Kippur, ottobre 1973, ndr), e all’improvviso mi sono ritrovato in un paese di cui avevo solo una conoscenza superficiale e dei pregiudizi. E mi sono trovato all’improvviso a camminare per le strade, a guardare le facce della gente e vedere la quotidianità della loro vita, la loro normalità».

Che cosa l’ha impressionata, la folla del Cairo?

«La folla, questa enorme quantità di persone che si muove come un fiume, tutto il tempo, giorno e notte, e questa mistura tra una cultura molto antica, gloriosa con i suoi faraoni e le sue piramidi e la povertà di oggi. È stata un’emozione molto forte».

C’è un luogo dove non è stato e che vorrebbe vedere presto?

«Damasco è un posto del genere. Circa venti anni fa, quando fu pubblicato in inglese il mio libro Un popolo invisibile, mi telefonò il vice direttore del National Geografic e mi disse: "Abbiamo letto il suo libro e siamo pronti a mandarla dovunque lei voglia" e io risposi immediatamente: "A Damasco". Rimase sorpreso e mi chiese: "Perché Damasco?". Gli risposi: "Perché Damasco mi fa paura"».

Perché paura?

«Perché da quando sono nato sono stato programmato a vedere nei siriani i nostri nemici più feroci. Sapevo che se fossi andato in un posto da cui ero così terrorizzato e mi fossi concesso la possibilità di "essere là" completamente, di vedere la complessità della situazione, mi avrebbe spinto con forza a scrivere di tutto ciò, avrebbe creato in me qualcosa di nuovo. Normalmente, quando scrivo, "vado" in posti che mi spaventano, tocco sempre temi che mi sono difficili, minacciosi. In quasi tutti i miei libri da Vedi alla voce: amore, con l’incubo della Shoah, o Il libro della grammatica interiore, in cui ero così ossessionato, per anni, dalle questioni del corpo e da come noi dobbiamo adattarci al nostro corpo, che non abbiamo scelto...».

E c’è un posto dove è stato e in cui non vorrebbe mai più tornare?

«No. Forse dovrei spiegare una cosa: mi hanno cresciuto facendomi credere che tutto il mondo era un nemico. Sono stato un bambino nell’Israele degli anni Cinquanta ed è così che la nostra generazione è stata cresciuta, con questo messaggio: "Il mondo è un nemico, stai attento, sii sospettoso. La gente tenterà di imbrogliarti, di manipolarti". I nostri genitori ci hanno davvero avvolti nella bambagia, hanno tentato di tenerci molto vicini a loro, cosa perfettamente comprensibile, se si pensa alla loro esperienza negli anni Quaranta. Da quando però ho cominciato a viaggiare per il mondo, ho scoperto l’esatto opposto. Ovviamente, qua e là si possono trovare imbroglioni o cattivi soggetti, ma più vado nel mondo e più ci vado disarmato, deliberatamente, e più incontro gente e ci parlo, più la mia impressione è l’esatto contrario. Persino in questo viaggio a piedi in Galilea, in cui ho camminato da solo. Di solito incontravo gente che andava in coppia o in piccoli gruppi, al massimo di una decina di persone. La maggioranza della gente che camminava allora, parlo di sei anni fa, in quella parte di Israele, erano coloni. Hanno questa ideologia. Mi dicevano: "I vostri figli vanno in esplorazione in Sud America, noi esploriamo il nostro Paese". Penso che in qualsiasi altro contesto io e loro ci fossimo incontrati, la cosa si sarebbe sviluppata in una lite, in uno scontro. Trovandoci nella natura, incontrandoci nella natura, con la generosità della natura...».

La natura ha mitigato gli animi, ha fatto da mediatore?

«Sì, e la gente ha davvero parlato con me».

Da Il vento giallo a Vedi alla voce: amore, dai racconti per bambini ad A un cerbiatto somiglia il mio amore sembra che lei abbia compiuto un lungo percorso. Come riassumerebbe il suo viaggio personale di scrittore?

«È una domanda molto seria. È il coraggio di capire. Capire altra gente, tentare di vedere la realtà attraverso gli occhi di altre persone, diverse da me e alle volte persino miei nemici, che mi possono sfidare o essere pericolose per me. Tentare di osservare la realtà da quanti più possibili punti di vista. È non temere di andare in posti che possano fare paura, o che possano essere molto dolorosi, o addirittura nei posti più dolorosi».


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