MICHAEL LöWY
L’APPARATO MICIDIALE
In entrambe le correnti culturali ebraiche di lingua tedesca, quella religiosa e quella atea-rivoluzionaria, si mescolano messianismo e libertarismo. I rapporti di Kafka con gli anarchici cèchi e il suo orrore per lo stato burocratico, anche se normale e di diritto. Nel Processo, la vergogna che sopravvive al protagonista è quella di essere stato acquiescente al potere, "come un cane".
Intervento di Michael Löwy. (UNA CITTÀ, n. 86/Maggio 2000)
Dal 5 al 7 maggio si è tenuto a Venezia un convegno internazionale dal titolo "Anarchici ed ebrei. Storia di un incontro", organizzato dal Centro Studi Libertari di Milano e dal Centre International de Recherches sur l’Anarchisme di Losanna. Pubblichiamo l’intervento di Michael Löwy, Cnrs, Parigi, su "Anarchismo ed ebraismo nella Mitteleuropa: il caso Kafka".
In questo convegno si sta parlando soprattutto di ebrei dell’Est europeo, ma ora cambiamo del tutto paesaggio. Non tratterò di ebrei di cultura hyddish, ma di ebrei di cultura tedesca, ebrei della Germania e dell’impero austro-ungarico; non più di militanti del movimento operaio, ma di intellettuali, di franchi tiratori liberamente fluttuanti. Quelli di cui parlo non sono pensatori che hanno respinto la tradizione religiosa ebraica, ma, al contrario, intellettuali affascinati da certi aspetti della tradizione spirituale ebraica e in particolare dal messianismo. Si tratta quindi di una delle correnti della cultura ebraica dell’Europa Centrale che è romantica e libertaria, una specie di nebulosa in cui si intessono legami che definirei di "affinità elettiva" fra il romanticismo, la rinascita spirituale religiosa ebraica, il messianismo, la rivolta culturale anti-borghese e anti-statale, anti-autoritaria e l’utopia rivoluzionaria socialista, libertaria, anarchica. E’ a questa nebulosa, a questa rete, a questa corrente culturale, che appartiene -lo vedremo fra breve- Franz Kafka.
In questa area messianico-libertaria si possono distinguere due poli. Il primo è quello che definirei degli ebrei religiosi con sensibilità libertaria; cito alcuni nomi: Franz Rosenzweig, Martin Buber, Gershom Scholem, Leo Löwenthal. Sono persone che aspirano a un rinnovamento culturale, e a volte anche nazionale, ebraico, ma non sono nazionalisti in senso stretto, hanno tutti un sogno di utopia universalistica libertaria che si innesta, in un modo o nell’altro, nella spiritualità messianica.
L’altro polo, molto diverso, è quello degli ebrei assimilati, che definirei "ateo-religiosi", che si pongono in quella strana frontiera che separa ateismo e religione. Anch’essi sono dei libertari, o sono stati tali durante la gioventù; citerò alcuni nomi: Gustav Landauer, Ernst Bloch, Erich Fromm, il giovane Giörgy Lukacs, prima che diventasse comunista, Walter Benjamin. Sono persone che, al contrario del gruppo precedente, si allontanano dal giudaismo, ma restano tuttavia legati alla cultura ebraica; sono pensatori che si avvicinano alle idee libertarie, alle idee anarchiche durante gli anni 1914-23 e in seguito alcuni di loro, non tutti, si avvicineranno al marxismo.
Questi due poli sono diversi, ma non sono completamente separati fra loro: ci sono legami personali, affettivi, intellettuali fra di essi, simbolizzati dall’amicizia, ad esempio, fra Martin Buber, dalla parte religiosa, e Gustav Landauer, dalla parte rivoluzionaria, e da quella fra Gershom Scholem, pensatore della qabbalah, e Walter Benjamin, il rinnovatore della filosofia politica rivoluzionaria. Si vede quindi che, nonostante le differenze, ci sono dei legami, delle affinità elettive fra loro.
Vorrei ora parlarvi di Franz Kafka, che fa parte di questo contesto, di questa area, ma ne è anche un po’ a parte. Kafka è un po’ lontano da tutte le correnti, è legato a questi due poli distinti, ma non fa parte né dell’uno, né dell’altro e la sua opera è una delle più interessanti di questo movimento. Parlerò soprattutto del rapporto di Kafka con l’anarchismo, non essendoci il tempo per sviluppare l’aspetto ebraico, che evidentemente è molto presente. L’opera letteraria di Kafka non può essere ridotta a una dottrina politica, sarebbe assurdo: l’opera letteraria non è un sistema concettuale, non è una dottrina, è un universo immaginario con personaggi e situazioni. Tuttavia si può studiare il legame, direi il passaggio sotterraneo, fra lo spirito anti-autoritario, la sensibilità libertaria, la simpatia di Kafka per l’anarchismo e i suoi scritti letterari.
Penso che ci sia un legame fra i due aspetti che ci aiuta a capire la sua opera nella sua specificità. Prima di parlare dell’opera, vorrei però dire qualche parola sui legami personali di Kafka col movimento anarchico di Praga. Esistono in proposito parecchie testimonianze delle persone che l’hanno incontrato, e frequentato, in riunioni anarchiche, soprattutto negli anni 1909-12. La prima testimonianza è di uno dei fondatori del movimento anarchico cèco che si chiama Michal Kàcha, che racconta a Max Brod, il migliore amico di Kafka e suo biografo, di avere incontrato Kafka parecchie volte in riunioni di un club anarchico della gioventù; non prendeva la parola in queste riunioni, ma ascoltava sempre in silenzio. Questa testimonianza è stata ripresa da Max Brod nella sua biografia di Kafka. La seconda testimonianza è stata pubblicata, ed è quella di uno scrittore anarchico che si chiama Michal Mares, che racconta anche lui di aver conosciuto Kafka a delle riunioni anarchiche e di averlo incontrato in meeting e manifestazioni di strada. Mares dice, per esempio, che Kafka partecipò alla manifestazione di protesta contro l’esecuzione in Spagna di Francisco Ferrer, l’educatore libertario spagnolo giustiziato nel 1909; racconta poi di averlo incontrato parecchie volte anche negli anni 1910-12, in riunioni di diversi club del movimento anarchico cèco. Questo per la seconda testimonianza. La terza è quella di Gustav Janouch, che negli anni ’50 ha pubblicato una raccolta di conversazioni con Kafka avvenute attorno al 1920, in cui l’autore parla della sua amicizia per degli anarchici cèchi, dicendo fra l’altro: "Gli anarchici cèchi sono persone molto gentili e allegre, così gentili e così amichevoli che ci si vede costretti a credere ad ognuna delle loro parole".
E’ una specie di dichiarazione d’amore per gli anarchici cèchi. Ma ci sono altre dichiarazioni di Kafka a Gustav Janouch, in cui si sente lo spirito libertario, ad esempio, la celebre frase: "Le catene dell’umanità torturata sono in carta protocollo".
Se invece leggete le biografie di Kafka ufficiali, accademiche, vedrete che la maggior parte degli autori respinge questa tesi. Solo un autore tedesco, Klaus Wagenbach, che ha scritto la biografia del giovane Kafka, mette in rilievo questi aspetti. Ma la maggior parte degli altri le respingono come un mito, una favola, un’invenzione e, secondo me, dietro questo rifiuto c’è un atteggiamento politico. Non tutti, ma molti sono dei conservatori che trovano veramente insopportabile che Kafka abbia potuto avere legami con l’anarchia. Non voglio entrare in una discussione troppo dettagliata, vi farò un esempio: uno dei biografi tedeschi di Kafka più conosciuti, Hartmut Binder, che ha pubblicato grossi volumi pieni di informazioni interessanti, d’altra parte, dice: "E’ inimmaginabile che Kafka abbia potuto frequentare riunioni anarchiche e non abbia raccontato niente al suo amico Max Brod, che dice ’non ho mai saputo questo’; è qualcosa di inimmaginabile". Ora, questa argomentazione è così falsa che non si sa cosa dire. Max Brod lo trovava immaginabilissimo, trovava questo perfettamente possibile poiché nella biografia di Kafka dice: "Il mio amico Kafka ha frequentato riunioni anarchiche e non mi ha mai detto niente. Non è la sola cosa che non mi ha detto, spesso non mi diceva cose molto importanti per lui".
Quindi Max Brod trova le frequentazioni anarchiche di Kafka del tutto normali mentre per il signor Binder sono inimmaginabili. Del resto il Signor Binder dice anche che "E’ inimmaginabile che Kafka potesse frequentare riunioni di persone fuorilegge". Come se Kafka avesse un rispetto superstizioso per la legge, come se la legge fosse per lui qualcosa di sacro. Sembra quasi che Binder non abbia letto Il Processo. Non entro nella discussione, ci sono parecchi autori che sostengono argomentazioni di questo tipo; preferisco passare a un argomento più interessante: l’opera stessa di Kafka.
Nell’opera di Kafka c’è una costante molto forte ed è l’anti-autoritarismo, il rifiuto dell’autorità, la presentazione dell’autorità come ingiusta, arbitraria e spesso micidiale. E’ un filo rosso che attraversa tutta l’opera letteraria di Kafka e che nel tempo si evolve. Il punto di partenza è l’autorità paterna.
Si sa che Kafka aveva dei problemi con suo padre, un personaggio estremamente autoritario. Nella Lettera al Padre che Kafka tuttavia non ha mai inviato a suo padre, ci sono queste parole: "Voi siete un tiranno e siccome siete un tiranno io sono automaticamente dalla parte del personale che lavora nella vostra impresa". Si metteva dalla parte dei lavoratori della fabbrica di suo padre contro di lui perché anche lui si sentiva vittima della tirannia del padre.
Il primo testo letterario di Kafka è Il Verdetto, del 1912, che è una storia terribile. E’ il monologo di un padre che critica suo figlio, dicendogli: "Sei un miserabile, un ingrato, un mascalzone, ecc." e concludendo: "A causa di tutto questo, ti condanno alla pena capitale, devi morire, devi andare a buttarti nel fiume", e il figlio in effetti obbedisce a questo ordine assurdo, ingiusto, disumano: va e si getta nel fiume.
In questa prima opera letteraria di Kafka si parla di una tirannia autoritaria, assurda, omicida, ma familiare: il tiranno è il padre. C’è un commento interessante di Milan Kundera, lo scrittore cèco, su questo testo: "Noi troviamo fra questo primo testo, Il Verdetto, e il romanzo Il Processo, scritto molto più tardi, una verosimiglianza molto grande nel colpevolizzare, nelle accuse, nelle esecuzioni". Quindi c’è una specie di legame intimo fra il totalitarismo familiare del primo testo e quello del grande romanzo. Ma c’è una differenza molto importante: nel primo testo il totalitarismo è ancora personale, si tratta dell’autorità del padre; nel romanzo, invece, il processo di spersonalizzazione dell’autorità si è realizzato compiutamente. Il passaggio dall’uno all’altro è emblematizzato dal romanzo America, in cui si trovano personaggi autoritari familiari e burocrati impersonali. Il giovane protagonista viene mandato via da casa perché è andato a letto con la cameriera, o, piuttosto, perché la cameriera è andata a letto con lui, quindi è vittima dell’autorità del padre; in seguito è vittima dell’autorità dello zio che prima lo accoglie in America, lo prende con sé e poi lo manda via per una ragione assurda; infine incontrerà l’autorità impersonale degli amministratori di un albergo in cui cerca di lavorare. Quindi già in America c’è la transizione dall’autorità familiare all’autorità burocratica.
Il testo fondamentale nella trasformazione della riflessione di Kafka sull’autorità è però un racconto breve, La colonia penale, in cui un viaggiatore arriva in un’isola, che è una colonia penale francese abitata da indigeni oppressi dai militari e diretta da un comandante che non si vede mai, che non è molto importante. Quando il viaggiatore arriva, nella colonia ci si sta preparando a giustiziare un soldato indigeno perché, sembra, ha dimenticato di fare il saluto ai suoi superiori. Questa esecuzione dovrebbe essere attuata da una macchina molto sofisticata, una macchina di tortura che, con degli aghi, dovrebbe scrivere sul corpo della vittima un testo pieno di florilegi, che celebri lo spirito dell’autorità, attraverso la frase: "onora i tuoi superiori". Mentre si sta preparando l’esecuzione, un ufficiale descrive il funzionamento della macchina al viaggiatore che trova tutto questo ripugnante, ma che non può fare niente.
Tutto il racconto gira attorno a questa macchina: com’è fantastica, com’è efficace, com’è bella; si direbbe che la macchina non sia lì per giustiziare il prigioniero condannato, ma che sia il prigioniero condannato a essere lì per fornire della "carta" affinché la macchina possa scrivere il suo messaggio omicida. Alla fine si verifica però un mal funzionamento, per cui l’ufficiale entra nella macchina per ripararla, ma questa si rimette in funzione e uccide l’ufficiale nel modo che era stato previsto per il soldato.
Quel che emerge da questo racconto è quindi l’idea del potere autoritario come di un apparato completamente impersonale che uccide; un apparato che esige sacrifici umani e che finisce per sacrificare i propri servitori, in questo caso l’ufficiale. A quale apparato, a quale macchina causa di sacrifici di vite umane pensava Kafka quando scriveva questo racconto? Per rispondere, bisogna conoscere la data. Questo testo è stato scritto nell’ottobre 1914, alcuni mesi dopo l’inizio della prima guerra mondiale. Quindi è nella guerra mondiale che si manifesta nel modo più brutale, più plateale, il carattere del potere dello stato, del potere democratico-militare; un carattere che è quello di apparato, della macchina impersonale ed omicida, della macchina astratta.
Anche nei due grandi romanzi più conosciuti, Il Processo e Il Castello, si ritroverà quest’idea di un apparato gerarchico, astratto, impersonale e burocratico, brutale, spesso meschino e sempre ingiusto. Non posso evidentemente fare qui un’analisi esauriente, dirò soltanto che anche in questi romanzi c’è l’idea molto forte del carattere alienato, o reificato, di questo apparato -giudiziario in un caso, burocratico nell’altro- e del suo essere profondamente menzognero: questo apparato racconta sempre bugie. Si è detto spesso che nel Castello o nel Processo, Kafka abbia previsto gli stati totalitari, sia il nazismo che lo stalinismo.
Bertold Brecht, che era simpatizzante del fronte comunista, nel 1934 scrisse, per esempio: "Kafka ha capito il modo secondo il quale gli uomini sono dominati dallo stato-formicaio e ha previsto certe forme di questa alienazione, come ad esempio i metodi della Ghepeu". Dunque Brecht, che era un simpatizzante dell’Unione Sovietica, nel ’34 scriveva che Kafka aveva previsto i metodi omicidi della polizia politica sovietica. Penso, però, che questo tipo di commento ci faccia perdere qualcosa di molto importante: Kafka non descrive nei suoi romanzi necessariamente lo stato totalitario, descrive lo stato "normale", lo stato moderno normale. Come prova citerò solo la prima frase del Processo: "K - il protagonista del romanzo - viveva in uno stato di diritto, la pace regnava dappertutto, tutte le leggi erano in vigore, chi osava quindi aggredirlo in casa sua?". L’idea di Kafka, perciò, è che anche in uno stato di diritto la polizia può bussare alla vostra porta e dirvi: "Lei è condannato, lei deve subire un processo, ecc.". Questo comportamento, per Kafka, non appartiene a una dittatura, bensì a uno stato di diritto, a uno stato normale, e questa è un’idea anarchica; l’idea anarchica che tutti gli stati sono oppressori, che lo stato in sé è un apparato di oppressione, un apparato di oppressione che può condurre alla morte. Si sa che Il processo termina con la scena dell’esecuzione di K, ma in questa esecuzione c’è qualcosa di terribile, si dice: "Muore come un cane" e "Solo la vergogna mi sopravviverà".
Perché "come un cane"? E perché "vergogna"? Non si riflette mai su questa conclusione del Processo. Ebbene, il cane per Kafka era un concetto filosofico, anche metafisico; il "cane" -che appare spesso sia nel Processo che in altri testi- è colui che si inginocchia davanti all’autorità, che obbedisce agli ordini, che lecca la mano di colui che lo frusta, che non si oppone. E’ questo il comportamento del cane. Ciò che è più triste nel Processo è infatti che K, la vittima, non resiste; scrive Kafka: "si lascia portare via senza resistere", ed è questa la vergogna, il non aver tentato di resistere. Il protagonista del romanzo America, che cerca di resistere sia pure in modo maldestro, dice: "Sono cani coloro che vogliono accettare supinamente".
Il rifiuto di lasciarsi sottomettere, di comportarsi come un cane, appare perciò a Kafka come il primo passo per poter camminare eretti verso la libertà.
Nel linguaggio corrente si dice che una certa situazione è "kafkiana": a me questa pare una questione molto interessante. "Kafkiano" è una parola difficile da spiegare con altri concetti; è una parola che occupa un vuoto nelle scienze sociali e nella scienza politica che parlano sempre dello Stato -razionale o tradizionale, funzionale- dal punto di vista dello Stato. Ora Kafka parla dello Stato dal punto di vista delle sue vittime, di coloro che non capiscono ciò che succede, per i quali lo Stato è un apparato opaco, assurdo, incomprensibile. Kafka parla delle persone che si sentono afferrare per le mani, che vivono lo Stato come un incubo del quale non capiscono niente e che finisce spesso con lo schiacciarli. E’ questa che chiamiamo una situazione "kafkiana". Questa parola non esiste nelle scienze sociali e non la si può comprendere, se non dopo e in riferimento ai romanzi di Kafka.
Penso che di questa comprensione così profonda di quel che è lo Stato visto dal punto di vista delle sue vittime, non si possa rendere conto nell’opera di Kafka, se non, appunto, in relazione alla sensibilità libertaria e alla simpatia che Kafka ha manifestato per il movimento anarchico.