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PER UNA SVOLTA UMANA E CULTURALE: SVEGLIARSI, SUBITO !!! PRODI DIFENDE LA FINANZIARIA E LANCIA L’ALLARME : Il Paese è impazzito, non pensa più al futuro!

martedì 14 novembre 2006 di Federico La Sala

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> PER UNA SVOLTA UMANA E CULTURALE: SVEGLIARSI, SUBITO !!! L’ALLARME DI PRODI: "Il Paese è impazzito, non pensa più al futuro".

domenica 12 novembre 2006

L’Italia specchio della politica

di ILVO DIAMANTI *

IL PREMIER, Romano Prodi, ieri, sconsolato, ha ammesso di non riconoscerli più, gli italiani. I quali, a suo avviso, sarebbero "impazziti". Incapaci di capire e di accettare la gravità della condizione in cui versano. Di guardare al futuro. Una strana dichiarazione, per chi governa, per volontà e con il voto degli italiani. A meno che gli italiani non siano impazziti e abbiano perduto il senso del futuro "dopo" il voto. E in questo caso sarebbe difficile non attribuirne la responsabilità, almeno in parte, a chi ha governato in questi mesi. Il fatto è che per fare politica, per governare non è sufficiente diagnosticare i mali e prescrivere le terapie di cui ha bisogno la nostra economia. Occorre convincere i cittadini. Dimostrare loro quanto siano necessari i "sacrifici" (i tagli) previsti. Trovare le soluzioni ma anche le parole per comunicarle. Per spiegarle.

Se gli italiani "non capiscono", anche ammesso che sia vero, non possono essere loro a sbagliare. Ma chi li rappresenta. Per definizione. D’altronde, l’idea che gli italiani sbagliano, non capiscono, è ormai consolidata. L’ha sostenuta Berlusconi, per anni. Anche se il Cavaliere affermava un’immagine opposta. Quella di un Paese felice. Con un grande futuro. Il mito delle due Italie. L’Italia media, depressa e pessimista, che si scontrava, allora, con la narrazione che ne davano Berlusconi e i media. Assai più ottimista.

Lo stesso mito che oggi propone Prodi. Ma a parti invertite. È l’Italia media, secondo lui, a rifiutare la gravità della situazione. Malata di bulimia, non accetta la dieta preparata dal governo. Comune la convinzione che "gli italiani non capiscono". Sono impazziti. Non pensano al futuro. Facile ricorrere all’immagine di una "Italia divisa a metà" (evocata dal titolo di un libro, curato da Renato Mannheimer e Paolo Natale, per Cairo; e tematizzata da un volume di Itanes, Dov’è la vittoria?, appena edito dal Mulino). Divisa: sul piano elettorale, fra destra e sinistra. Ma anche tra società e politica, fra i cittadini e le istituzioni. Però non funziona. L’Italia divisa a metà? Magari. Questo Paese rammenta assai di più l’immagine dello "specchio rotto", sul quale domenica scorsa si è fermato lo sguardo attento e dolente di Eugenio Scalfari. Una società che si sbriciola in mille pezzi. In mille schegge. Il nostro Paese. Diviso e al tempo stesso unito da molteplici differenze, di storia, economia e cultura. Quelle differenze, che hanno sempre costituito una risorsa e una ricchezza, per noi, oggi stentano a stare insieme, dentro a una cornice comune. Come le tessere che rifiutano di combaciare, nello stesso puzzle; rivendicando, ciascuna, la propria irriducibile specificità.

Le nostre questioni territoriali, vecchie e nuove: riesplodono. A Napoli: la questione meridionale. Nel Lombardoveneto: la questione settentrionale. E i "particolarismi" metropolitani. Roma che contende a Venezia il ruolo di capitale del cinema. E a Milano l’hub aeroportuale. Torino che protesta contro Milano - e contro il governo "amico" - per aver perso l’expo. La metropoli diffusa del Nordest contro tutti. Quanto alla coesione sociale e professionale, che dire? Protestano tutti. Tutti i ceti e tutte le categorie. In modo chiassoso. Qualche volta violento. Ma comunque ad alta voce. Protestano i tassisti, i farmacisti, i notai e gli avvocati. Protestano i ceti medi. Ma neanche gli altri ceti sembrano felici. Protestano i commercianti, gli artigiani, gli industriali piccoli, medi e grandi.

Protestano gli evasori, piccoli, medi e grandi. E quelli che non evadono, perché non vogliono e soprattutto, non possono farlo. Protestano i sindaci. Protestano i pensionati e i lavoratori che contano di andare in pensione presto. E quelli che temono di non arrivarci. Protestano i ricercatori, i professori universitari e i rettori. Protesto anch’io, che sono professore universitario, pro rettore, faccio ricerca, non credo che arriverò alla pensione e risiedo nel Nordest.

Ciascuno ha le sue buone ragioni. Tutti, certamente, hanno i loro buoni interessi da difendere. Tutti, nel loro piccolo (medio e grande) hanno un buon motivo per incazzarsi. E lo fanno. Senza preoccuparsi troppo dell’interesse comune, delle buone ragioni di medio e lungo periodo. Senza pensare al futuro. In questo, forse, Prodi ha ragione. Però, a nostro avviso, sbaglia quando contrappone le responsabilità sociali a quelle della politica, delle istituzioni e del governo.

Purtroppo: non c’è distanza fra questa società e la politica che la "rappresenta". Non c’è distacco fra la frammentazione sociale e quella della maggioranza di governo. C’è, anzi, coincidenza fedele. La politica, il centrosinistra, il governo: invece di ridurre e sanare la confusione sociale, la complicano e la moltiplicano. Alimentano le spinte centrifughe cui è sottoposta la società; le tensioni localiste e municipaliste. La Cdl: protesta contro il governo. Ogni settimana una città, una piazza. Ma sta all’opposizione. Fa il suo mestiere. Però, marciano contro il governo anche soggetti politici "amici". I partiti e i gruppi della "sinistra tradizionale" (come la definisce Michele Salvati), che una settimana fa hanno promosso e partecipato alla manifestazione contro il precariato. Cioè, contro i "riformisti" del centrosinistra. Contro gli alleati. Mentre i "girotondini" preparano, a loro volta, strategie e liste alternative. D’altronde, questa legge elettorale ha alimentato ulteriormente il frazionismo partigiano. Riducendo gran parte dei partiti a oligarchie di potere.

Un vizio che oggi affligge la maggioranza, più dell’opposizione. Non che la Cdl sia coesa e omogenea. Anzi. Però, appunto, sta all’opposizione. L’Unione, invece, oggi è un ossimoro, tanto appare sbriciolata. Sette partiti, il doppio almeno di fazioni, frazioni, correnti, che attraversano e segmentano i partiti. E si incrociano, intrecciano, contrastano. Un melting pot di culture politiche, identità, che si traducono in un catalogo sempre più lungo di marchi e definizioni. Comunisti, radicali, socialisti, socialdemocratici, popolari, mastelliani, dipietrini, ulivisti, teodem, social-liberali, liblab, blairiani, veltroniani, verdi, riformisti, new-global. Mentre si avvicina l’Italia di mezzo (cioè, Follini). Ma certamente dimentichiamo qualche sigla, qualche soggetto, qualche neologismo usato per evocare un gruppo, talora, più modestamente, un nuovo comitato che rivendica un posto a tavola. Pardon: al "tavolo di concertazione". E ciascuno spinge, grida, minaccia, fino al limite della rottura. Per cercare visibilità. Spazio.

La difficoltà di costruire una finanziaria e, più in generale, una politica di governo coerente e comprensibile riflette, indiscutibilmente, questa situazione frammentaria e frammentata. Che Prodi, Padoa-Schioppa e gli altri ministri hanno affrontato ricorrendo a continue mediazioni e soluzioni creative. Difficile indicare una "missione", in queste condizioni. Ma è difficile, a maggior ragione, pretendere che i cittadini "capiscano" ciò che solleva polemiche e contrasti fra i ministri e i leader della maggioranza. Interpretarne il disorientamento come segno di follia. Come è difficile, a maggior ragione, chiedere agli italiani un sentimento comune e di unità, se è l’Unione, per prima, ad apparire "spezzata". Incapace di proporre identità, valori, progetti comuni.

Basta pensare al Partito Democratico, che, ancora, incontra il consenso di gran parte degli elettori di centrosinistra. Ma procede per inerzia. Un passo avanti, due di lato. Poi una sosta. Come se si potesse costruire un nuovo soggetto politico in questo modo. Senza entusiasmo. Senza passione. Per necessità. Per cui si sta insieme perché altrimenti sarebbe peggio. Tornerebbe il Tiranno. Di cui, peraltro, di giorno in giorno cresce la nostalgia. Perché la sua assenza al governo, e la sua voce intermittente, all’opposizione, pesano. Soprattutto al centrosinistra. Che, senza il Nemico, appare spaesato.

Se il Paese appare "impazzito", in frantumi, senza futuro, è perché somiglia troppo alla politica. E, in particolare, al centrosinistra che governa. Anzi: la politica e il centrosinistra ne offrono un’immagine ancor più frammentata e opaca. Come uno specchio in frantumi. Se Prodi vuole "curare" il Paese, promuoverne la coesione e il senso del futuro deve cominciare dal governo e dalla sua maggioranza.

* la Repubblica, 12 novembre 2006


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