LA CAMERA ARDENTE ULTRÀ, CASALINGHE, CANTANTI: UNA FOLLA ENORME HA RESO OMAGGIO AL SIMBOLO DELLA SCENEGGIATA NELLA BASILICA DEL CARMINE MAGGIORE
«Core mio si’ mmuorto...»: show di Napoli per Merola. E la chiesa diventa l’ultimo palcoscenico per «’o rre»
di Fulvio Milone (La Stampa, 14/11/2006)
NAPOLI. Protagonista muto dell’ultima sceneggiata senza lieto fine, Mario Merola riposa in una bara di mogano intarsiato davanti all’altare della Basilica del Carmine Maggiore, circondato da una folla di comparse dallo sguardo dolente. Un vecchio, Giuseppe Del Piano, fissa la folla e ricorda quando fra queste stesse navate la città venne a dire addio a un altro volto di Napoli, Totò: «Allora morì il principe della risata, oggi se n’è andato il re della sceneggiata».
Se da qualche parte «’o rre» può osservare quanto sta accadendo nella chiesa gremita, di certo un sorriso soddisfatto attraverserà il suo faccione da guappo dal cuore buono. Non avrebbe potuto sperare in una rappresentazione migliore, lui che come nessuno sapeva toccare le corde più profonde di una città che, l’amore ricevuto, glielo sta restituendo tutto: fino all’ultima stilla, ostentando il proprio cordoglio senza timidezze, in modo plateale, e trasformando la veglia funebre in una sorta di rappresentazione popolare in cui gli attori recitano con passione, con il cuore. Le comparse sfilano davanti alla bara su cui sono state poste due sciarpe azzurre (una degli ultrà del Napoli Calcio, l’altra con su scritto: «Le tue fans») e una cornice d’argento con la foto di Merola in divisa da carabiniere: «La indossò tanti anni fa nella sceneggiata che forse preferiva: Tuppe tuppe Marescia’», spiega un marcantonio del servizio d’ordine mentre invita i napoletani che formano una fila lunghissima a non sostare per più di pochi secondi davanti al feretro. Ma come si fa a a spingere via la vecchia Carmela mentre protende le braccia oltre le transenne che separano il pubblico dalla bara e grida: «Core mio, core mio si’ mmuorto»? Come si può impedire a un distinto signore di mezz’età di fermarsi e omaggiare «’o rre» con un «Mario sei grande, sei Napoli»? E come mai sarebbe possibile interrompere i singhiozzi di Luciano Caldore, cantante neomelodico gratificato dai fans con il titolo di «sex symbol vesuviano»?
La pattuglia dei neomelodici recita un ruolo importante in quest’ultima dolente sceneggiata meroliana. In lacrime, ostentano il volto pallido e le occhiaie di chi ha trascorso una notte insonne. Tutti si ritengono un po’ figli di «’o rre», che di questo particolarissimo stile musicale tutto napoletano è stato il caposcuola. Antonio Ottaiano, Mimmo Dany, Ciro Riggione, Franco Ricciardi: nomi che al mercato discografico nazionale dicono poco o niente, ma che sulla piazza vesuviana hanno grande seguito. Molti di loro ora sono qui, un po’ per sincera partecipazione, un po’ perché la Basilica del Carmine, in questo giorno, è un palcoscenico da cui è impensabile mancare. Qualcuno, a capo chino, intona a voce bassa qualche strofa di «Cient’anne», la colonna sonora dell’omonimo film in cui recitarono fianco a fianco Merola e un’altra icona neomelodica, Gigi D’Alessio: «No, senz’e te fernesce Napule, sultante tu la sai difendere... Napule è mamma, ma ce vuo’ tu pecchè si’ ’o papà».
«Mario non era un napoletano, era Napoli», mormora fra le lacrime Patrizio, fisico smilzo alla Nino D’Angelo, capelli incollati al cranio con un’overdose di gel. E Giuseppe del Piano, il vecchio che ricorda il funerale di Totò, fa su e giù con il capo: «E’ vero, quando andava all’estero il Maestro era il biglietto da visita di questa città. Lui era tutti noi, e noi eravamo lui. Se lo conoscevo? Certo, era un di noi, ’nu puveriello.
Da ragazzo Mario abitava qui vicino, nel rione Case Nuove: ce l’ho ancora davanti agli occhi, quel ragazzo grande e grosso che faceva lo scaricatore e giocava nella squadra di calcio parrocchiale del Carmelo. Poi fece fortuna, diventò un artista, ma ogni tanto lo incontravo e insieme parlavamo dei vecchi tempi».
La fila scorre lentamente. E’ lunga, lunghissima. Casalinghe e pensionati, giovanissimi con le teste rasate e ragazzine con l’ombelico a vista si abbandonano al rito poco consono all’occasione della foto alla bara con il cellulare. Fuori, nella piazza Mercato, migliaia di persone aspettano di entrare in chiesa. Sono le stesse che al mattino si sono presentate davanti alla cappella dell’ospedale di Castellammare di Stabia, dove la salma di Merola è stata portata prima del trasferimento a Napoli. C’era tanta folla, lì, che i carabinieri hanno chiuso le porte per concedere un po’ di privacy alla vedova del cantante, Rosetta, e ai figli Roberto e Francesco. E ora la gente si è spostata davanti alla Basilica, costretta dalle transenne a formare un lungo serpente che attraversa la piazza i cui muri sono tappezzati da manifesti listati a lutto: «E’ mancato l’artista del popolo, il grande Mario Merola di anni 72». L’ultima, grande sceneggiata in onore dell’uomo che delle sceneggiate è stato il re va in scena anche qui, in strada, dove Napoli rappresenta se stessa nel bene ma pure nel male. Agli sguardi addolorati e partecipi delle famigliole in attesa di entrare in chiesa si alternano quelli, famelici e disperati, dei tossicomani che in piazza Mercato non mancano mai, e che chiedeno qualche spicciolo per rimediare la dose quotidiana. C’è pure qualcuno che sfiora la gente in fila reggendo fra le mani una borsa piena di cd taroccati con i maggiori successi di Merola. Ma Napoli è così. D’altro canto, come dice Roberto, il figlio di «’o rre», «papà amava tutto di questa città, ne accettava gli splendori e le miserie».