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Italia

«NAPOLI SOLO ANDATA ... IL MIO LUNGO VIAGGIO». Addio a MARIO MEROLA, il re della sceneggiata. Nella Chiesa di Maria SS. del Carmine Maggiore il saluto della Città.

martedì 14 novembre 2006 di Federico La Sala
[...] «Merola è unico - ha detto Gigi D’Alessio - come Totò. Ha portato la canzone napoletana nel mondo. Ha seminato. Se noi riusciamo ad andare avanti lo dobbiamo a lui». Era una personaggio che amava l’esagerazione [...]

Il successo di massa con i film. Fu anche grande talent-scout
Vita e arte del re della sceneggiata.
Il ricordo del critico musicale *
Di umili origini e abituato fin da ragazzino a sbarcare il (...)

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giovedì 16 novembre 2006

In migliaia ai funerali del re della sceneggiata. Tra la folla la Napoli di mezzo, quella che si arrangia

Salutava il boss e Falcone, adorava padre Pio e Sinatra

di Michele Serio (Liberazione, 15.11.2006)

Napolinostro servizio. Di solito le cerimonie funebri servono a trasformare il defunto, chiunque sia, in un santo. Nelle omelie dei parroci, i pregi del caro estinto superano di gran lunga i difetti, la sua vita diventa pura come un cristallo di Boemia. Ma Mario Merola non merita davvero di essere sottoposto a un rituale così stantìo. Egli era un’icona di Napoli, come Totò, come Eduardo. E Napoli è una città che non accetta eroi senza macchia. Anzi, da queste parti, la macchia in un certo senso diventa il marchio dell’eroe. Ecco il motivo per cui, ai funerali di Merola celebrati nella chiesa del Carmine, si raccolgono migliaia di persone, mentre una televisione locale riprende l’evento in diretta proiettandolo su un maxischermo. Molti artisti decantano la debordante capacità comunicativa del defunto mentre i politici, da un po’ di tempo in disgrazia, cercano di approfittare del momento di commozione per accumulare qualche bonus che giustifichi la loro ignavia. Insomma è stato messo in piedi il solito, trito baraccone mediatico. Eppure basta aggirarsi tra la folla per comprendere per chi Merola davvero cantava e da chi era davvero ritenuto grande.

La gente raccolta innanzi alla chiesa è composta per lo più da persone comuni, cioè quelle che si barcamenano tra le clientele, ormai radicate, del potere politico e l’invasione sempre più proterva della camorra. Questi individui di solito, non ricevono benefici né dall’una né dall’altra parte, ma vivono ai margini, raccattando schegge di benessere un po’ qua e un po’ là.

Ebbene Mario Merola era proprio l’eroe di questa Napoli di mezzo, cioè quella che si arrangia. Non a caso nella sceneggiata egli interpretava indifferentemente il ruolo dello scafista che contravveniva alle leggi proclamando nello stesso tempo la sua onestà in nome del principio: «Bisogna pur dare da mangiare alla famiglia». E magari, nel lavoro successivo, senza sentirsi in contraddizione, offriva il suo volto all’emigrante onesto, costretto a lasciare la città nativa per cercare fortuna «in terre assaje luntane», proprio per sfuggire alla minaccia della criminalità organizzata.

Anche nella vita privata Mario Merola non si sottraeva alle sirene dell’ambiguità: egli dichiarava a ogni pie’ sospinto l’amore per la famiglia e in particolare per la moglie. Eppure, dettando la sua autobiografia, ha confessato candidamente di aver avuto innumerevoli scappatelle extraconiugali: «L’uomo è cacciatore; la donna, se vuole, può essere preda». Raccomandava ai suoi fan di non deviare mai dalla retta via anche se lui, nel frattempo, aveva dilapidato sui tavoli di gioco una fortuna che ammontava a parecchi miliardi di vecchie lire, giustificandosi così: «Se non giochi, che fai? Mangi, bevi e ti vai a coricare?».

Merola aiutò Gigi d’Alessio, Nino d’Angelo, giovani che avrebbero potuto fargli ombra, dimostrando una generosità che in campo artistico è rara come il quadrifoglio che fiorisce sulla sabbia. Però ha lasciato i suoi figli in una situazione economica niente affatto florida, come se la sua generosità fosse destinata al pubblico, mentre nella vita privata preferiva la pratica dell’avarizia.

Nel corso di innumerevoli interviste rilasciate ai giornali, ricordava con orgoglio di avere stretto la mano dello spietato boss di camorra Michele Zaza ma anche quella del giudice Falcone, che combatté l’illegalità a prezzo della vita. Si compiaceva di aver avuto il privilegio di conoscere di persona Padre Pio che venerava, ma anche Frank Sinatra, l’ambigua star collusa con la mafia, che pure ricordava con uguale ammirazione.

Per diventare ‘‘o core ‘e Napule” egli doveva per forza accettare le contraddizioni del suo popolo. Per ottenere la gloria degli altari, occorre dimostrare a questa città di saperne mangiare la polvere. Non a caso l’unico rivoluzionario che ha partorito Napoli nella sua storia è stato Masaniello che da pezzente si trasformò, per volere del popolo, in vicerè. E finì trucidato proprio in piazza Mercato, a pochi metri di distanza dai luoghi dove il re della sceneggiata mosse i primi passi della sua carriera. Anche Totò si dichiarò principe per nascita e divenne clown per necessità. Ferdinando quarto di Borbone, che re lo era davvero, imparò a parlare solo in dialetto e si mescolava ai lazzari per partecipare ai loro turpi traffici. Per non parlare di Maradona, il più grande calciatore di tutti i tempi che divenne fuoriclasse sul campo e, fuori dal campo, cocainomane perso. Merola, al pari degli eroi suoi predecessori, amava i concittadini senza avere la presunzione di giudicarli: «Io sono rimasto, io sono qua. O andiamo a fondo tutti o ci salviamo tutti insieme, senza fuì».

Alla fine della cerimonia religiosa, il feretro viene trasportato a braccia fuori dalla chiesa tra due ali di folla plaudente mentre, dal campanile più alto della storica chiesa, risuonano i lugubri rintocchi delle campane a morto. Poi all’improvviso accade qualcosa di strano. Uno scoppio di petardi copre lo scroscio degli applausi e il suono delle campane. A Napoli, dovete sapere, nei vicoli si sparano di continuo fuochi d’artificio, per festeggiare uno sposalizio, una comunione, ma anche per annunciare ai pusher che è arrivato un nuovo carico di droga, oppure per inneggiare alla liberazione di un guaglione appena uscito dal carcere. Lo scoppio dei fuochi di artificio è il modo di comunicare della città nascosta, quella di cui nessuno osa parlare ma con cui tutti fanno affari. E anche stavolta, in occasione dei funerali di “o core ‘e Napule”, essa non ha mancato di farsi sentire. E’ seccante ammetterlo, ma forse solo in questo momento si può davvero affermare che, davanti alla bara di Mario Merola, si inginocchia l’intera città.


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