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Per la dignità e la libertà di tutti gli esseri umani ...

UBUNTU: "Le persone diventano persone grazie ad altre persone". NELSON MANDELA, UN COMBATTENTE SUL RING DELLA STORIA. Il ritratto attraverso le immagini.

sabato 28 giugno 2008 di Federico La Sala
[...] "Nel giudicare i nostri progressi individuali ci concentriamo su fattori esterni, come la posizione sociale, la popolarità, l’autorità, la ricchezza, il livello culturale. Ma i fattori interni possono essere più decisivi: onestà, sincerità, semplicità, purezza, generosità, disponibilità ad aiutare gli altri. Qualità interne alla ricchezza di un’anima".
Così scriveva Nelson Mandela alla moglie Winnie, in una delle tante lettere dal carcere durante i 27 anni di prigionia. (...)

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> UBUNTU: "Le persone diventano persone grazie ad altre persone" !!! Nelson MANDELA: un combattente sul ring della storia (Mohammed Alì). ---- E’ il momento di celebrare uomini famosi. Nelson Mandela e’ oggi l’uomo famoso per eccellenza. Uno dei pochi che ha segnato il XX secolo come un’epoca di progresso per l’umanita’, al contrario di chi lo ha reso turpe con il fascismo, il razzismo e la guerra. Il suo nome dunque vivra’ nella storia, il contesto in cui egli appartiene al mondo (COSA SIGNIFICA MANDELA PER NOI di NADINE GORDIMER).

sabato 26 aprile 2008

NADINE GORDIMER: COSA SIGNIFICA MANDELA PER NOI *

E’ il momento di celebrare uomini famosi. Nelson Mandela e’ oggi l’uomo famoso per eccellenza. Uno dei pochi che ha segnato il XX secolo come un’epoca di progresso per l’umanita’, al contrario di chi lo ha reso turpe con il fascismo, il razzismo e la guerra. Il suo nome dunque vivra’ nella storia, il contesto in cui egli appartiene al mondo.

Naturalmente noi sudafricani facciamo parte di quel contesto e condividiamo il modo in cui egli e’ vissuto. Tuttavia egli appartiene a noi, e, soprattutto, noi apparteniamo a lui su un altro piano, diverso, di esperienza.

C’e’ chi lo ha conosciuto da bambino a casa sua, nel Transkei, e vede, sotto il suo viso anziano, segnato dalle straordinarie esperienze della clandestinita’ e della reclusione, i contorni delicati di un giovane allegro, ignaro delle qualita’ presenti dentro di se’, accanto alla normale voglia di vivere. C’e’ chi lo ha conosciuto come un collega con cui dividere i pasti quando, essendo nero, non poteva essere servito in un ristorante; come un giovane avvocato la cui presenza stessa in tribunale era contestata dai magistrati bianchi. Ci sono combattenti per la liberta’ che hanno sacrificato la propria vita e adesso non sono qui con noi per accostare all’immagine del leader della lotta comune quella dello statista che l’ha portata a compimento. C’e’ chi vede, sovrapposto al suo viso com’e’ oggi nelle apparizioni pubbliche, sui giornali e in televisione, il ricordo del viso, della figura e del portamento di quando parlo’ dal banco degli imputati dopo essere stato condannato all’ergastolo per aver lottato contro l’apartheid e proclamo’ un impegno cui ha sempre tenuto fede, in molteplici occasioni, correndo numerosi pericoli: "Nutro l’ideale di una societa’ democratica e libera in cui tutte le persone vivano insieme in armonia e possano avere delle opportunita’. E’ un ideale per cui spero di vivere e che spero di conseguire. Ma, se necessario, e’ un ideale per cui sono pronto a morire".

E’ una tentazione raccontare aneddoti su Mandela. Per noi che abbiamo avuto anche solo una breve occasione di contatto con lui, e’ una tentazione parlare del piacere di essere ricordati oltre che di ricordare. Giacche’ quest’uomo che porta sulle sue spalle erette il carico del nostro futuro, un peso degno di Atlante, possiede una sorta di capacita’ di leggere il pensiero e cogliere l’identita’ degli altri, una specie di schedario mnemonico (sviluppatosi forse nei lunghi anni di contemplazione passati in carcere) grazie al quale riesce a riconoscere persone che magari non vede da anni o che ha incontrato di sfuggita nelle settimane appena trascorse, fitte di incontri e strette di mano. Ma non si tratta di un’abile astuzia da politico. Per quanto sembri insignificante, e’ segno di qualcosa di profondo: una presa di distanza dall’egocentrismo; quella capacita’ di vivere per gli altri che e’ il fulcro del suo carattere.

Ora Mandela viaggia per il paese ed e’ una presenza in carne e ossa per milioni di persone. E’ rimasto in carcere ventisette anni; in mezzo a noi - Robben Island e’ visibile dalla Table Mountain, a Citta’ del Capo; il carcere di Pollsmoor e l’edificio trasformato negli ultimi tempi in una prigione a lui riservata fanno parte della citta’ - e tuttavia, in termini sociali, sepolto. Ridotto al silenzio. Persino la sua immagine era stata rimossa; era proibito riprodurre la sua fotografia sui giornali o attraverso altri mezzi di comunicazione.

Sarebbe potuto facilmente diventare leggendario, le sue peculiarita’ sarebbero state riunite a formare l’icona di speranze irrealizzabili e di una liberta’ che continuava ad allontanarsi ogni volta che una nuova ondata di resistenza all’interno del nostro paese veniva schiacciata e sembrava sconfitta, mentre il mondo esterno rimaneva indifferente. Ma i neri sentivano che Mandela stava sopportando qualcosa che conoscevano: le dure umiliazioni del carcere erano esperienze quotidiane per loro ai tempi delle leggi dell’apartheid sui lasciapassare e di innumerevoli altre restrizioni civili che per generazioni in Sudafrica hanno creato una vasta popolazione di prigionieri non criminali. Mentre lui e i suoi colleghi venivano mandati a spaccare pietre ed estrarre alghe dall’Oceano Atlantico, le autorita’ carcerarie reclutavano persone comuni tra la popolazione nera per farle lavorare come schiave nei campi. Il suo popolo ha conservato viva la sua presenza nelle parole di canti e inni, nelle forme di resistenza da lui apprese, nonche’ nelle richieste di scarcerazione che facevano parte della piattaforma della lotta di liberazione, sostenuta sia dalla leadership in esilio sia dai cittadini in patria. Grazie alle notizie che trapelavano dalla prigione, sapevamo che si sentiva ancora parte di tutto questo, lo stava vivendo insieme al suo popolo; egli avvertiva la presenza della sua gente attraverso i muri del carcere, e la sua gente continuava a tenerlo con se’.

Questa doppia sensazione era intrinseca all’essenza stessa della resistenza. La possibilita’ nient’affatto remota che egli morisse in carcere non fu mai presa in esame. Il movimento di liberazione non subi’ mai la sconfitta psicologica di trasformarlo in una figura mitica, un Che Guevara, che un giorno sarebbe potuto riapparire solo in una mistica risurrezione, in groppa a un cavallo bianco. Quando una personalita’ diventa mito, scompare per sempre come leader in grado di assumersi nella propria carne vulnerabile la responsabilita’ del presente.

Certo e’ difficile scrivere di un fenomeno come Mandela in termini che non siano agiografici. Egli pero’ non e’ una figura divina, nonostante l’enorme popolarita’, e tale popolarita’, in un’epoca di proficue trattative fra bianchi e neri, si estende in ogni direzione e va oltre la fiducia e il rispetto riservatogli dai neri e da quei bianchi che hanno partecipato attivamente alla lotta di liberazione dall’apartheid. Mentre scrivevo queste pagine ho sentito al notiziario che, secondo un sondaggio, il 68% degli uomini d’affari sudafricani, desidera che Nelson Mandela diventi il futuro presidente del Sudafrica... Lungi dall’assumere una condizione celestiale, la natura di Mandela e’ anzi totalmente e assolutamente umana, l’essenza di un essere umano nel pieno significato che questa espressione dovrebbe, potrebbe avere, ma di rado ha. Egli appartiene fino in fondo a una vita reale vissuta in un luogo e un tempo specifici e nel rapporto di questo luogo e questo tempo con il mondo. E’ all’epicentro della nostra epoca; della nostra in Sudafrica e della vostra, ovunque voi siate.

Esistono infatti due generi di leader. Ci sono persone che creano il proprio io - la propria vita - mosse dall’ambizione personale, e ci sono persone che creano un proprio io con l’intento di rispondere ai bisogni della gente. Nel primo caso, la spinta viene dall’interno e non ha largo respiro; nel secondo e’ una carica di energia che deriva dai bisogni degli altri e dalle loro richieste. Il dinamismo della leadership di Mandela sta nel fatto che egli possiede dentro di se’ la qualita’ altruistica di saper accogliere questa carica di energia e agire di conseguenza.

E’ stato un leader rivoluzionario di enorme coraggio, e’ un negoziatore politico di talento e saggezza straordinari, uno statista che si adopera per un cambiamento pacifico. Ha sofferto in prigione per oltre un terzo della propria vita ed e’ sopravvissuto, uscendone senza pronunciare una sola parola di vendetta. Ha subito numerose disgrazie familiari dovute alla sua reclusione. Ha sopportato tutto questo, e’ evidente, non solo perche’ la causa della liberta’ per il suo popolo in Sudafrica e’ stata lo spirito che ha animato la sua vita, ma perche’ egli e’ uno di quei rari esseri umani che vedono nella famiglia umana la propria famiglia. Quando parla del Sudafrica come la patria di tutti i sudafricani, bianchi e neri, crede in quello che dice.

Proprio come quando, in tribunale, dichiaro’ solennemente di essere pronto a morire per questo ideale. All’appuntamento con la vittoria c’e’ posto per tutti. Attraverso le sue azioni e le sue parole, Mandela dimostra di sapere che senza questa condizione non c’e’ vittoria, per nessuno.

*

-  VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
-  Supplemento de "La nonviolenza e’ in cammino"
-  Numero 172 del 26 aprile 2008

[Dal sito www.feltrinellieditore.it riprendiamo il seguente saggio, dal titolo "Cosa significa Mandela per noi", apparso nel libro di Nadine Gordimer, Vivere nella speranza e nella storia. Note dal nostro secolo, Feltrinelli, Milano 1999 (libro chela casa editrice cosi’ presenta: "Vivere nella speranza e nella storia e’ una raccolta di saggi in cui Nadine Gordimer trova il modo di approfondire i temi che hanno alimentato la sua attivita’ creativa e la ricca biografia intellettuale. E’ un modo insolito e pensieroso per tornare a riflettere con lei sul senso della letteratura, sul ruolo dello scrittore o della donna, sul tormentato percorso sociale e politico del Sudafrica negli ultimi quarant’anni, sui grandi momenti di passaggio che hanno scandito la storia dell’ultimo millennio. Ma oltre ai pensieri e agli eventi, c’e’ anche il sapore degli incontri negli indimenticabili ritratti di alcuni autori contemporanei (Joseph Roth, Nagib Mahfuz, Guenter Grass, Leopold Senghor) e nel carteggio con Kenzaburo Oe. In ogni frammento, in ogni saggio o colloquio c’e’ una forte commozione e un senso di futuro e di speranza, come se l’autrice avesse avvertito in queste sue stesse pagine, scritte in tempi diversi e a volte anche lontani, l’intensita’ di un testamento spirituale per i contemporanei. E’ una raccolta di saggi suddivisa in tre parti. La prima comprende nove saggi composti tra il 1990 e il 1998 sulla scrittura, sulla letteratura contemporanea e sul ruolo dello scrittore oggi, dove l’autrice ribadisce il proprio duplice impegno, come donna e come scrittrice, e la sua "missione" nel mondo: dire cio’ che non si dice, parlare di cio’ di cui non si parla, porre domande difficili.

Appaiono inoltre quattro ritratti di autori contemporanei: su Joseph Roth, un testo su Nagib Mahfuz, un cammeo su Guenter Grass, e un ricordo di Leopold Senghor. Particolarmente interessante il carteggio (del 1998) tra Gordimer e Kenzaburo Oe dove lo scambio epistolare diventa un pretesto per discutere su un argomento che sta molto a cuore a entrambi i premi Nobel: la delinquenza giovanile nei rispettivi paesi, che Oe imputa al neonazionalismo dilagante in Giappone e Gordimer al pesante retaggio dell’apartheid. La seconda parte, la piu’ corposa, comprende tredici saggi di carattere storico-politico, un percorso della storia sudafricana degli ultimi quarant’anni (1959-1997), che si leggono con una certa commozione a cosi’ pochi anni dalla fine dell’apartheid. Una analisi della vita quotidiana del regime segregazionista e le sue implicazioni sia per il semplice cittadino nero sia per lo scrittore nero, perseguitato come uomo e messo all’indice come artista, dove la privazione della liberta’ non e’ solo individuale ma anche una crudele limitazione delle proprie corde artistiche. E ricorda con affetto chi e’ andato in esilio e non e’ piu’ tornato e chi e’ morto nelle carceri del regime: Can Themba, Nat Nakasa, Bram Fisher e altri. La terza parte riunisce quattro saggi scritti tra il 1986 e il 1996, una sorta di testamento spirituale dove ricorda le tappe storiche che hanno scandito il millennio, e con puntigliosa lucidita’ descrive la realta’ che conosce meglio, quella del suo paese")]


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