L’Italia incompatibile
di Furio Colombo *
Giorni come il 25 aprile tracciano linee di confine, demarcazioni nette fra un prima e un dopo, fra un destino e un altro destino, un’Italia e un’altra Italia. Non resta che sperare che niente di questa data diventi cerimonia e abitudine e che ci sia sempre chi la spiega nelle scuole ai più giovani con pazienza e chiarezza.
Non c’è niente in questa frase che condanni irreversibilmente qualcuno, vita, scelte, idee, sentimenti, o che stabilisca (troppo tardi, comunque) una lista di reietti. Niente che non rispetti i morti. Quanto ai vivi, gli esseri umani cambiano in meglio o in peggio e si trasformano tutto il tempo come la natura, il paesaggio, la storia. Dipende dal momento in cui si scatta la fotografia il rapporto col tempo, passato e futuro.
Ma date come il 25 aprile non spostano di un millimetro il senso di ciò che è avvenuto e che ha salvato tutti, persecutori e perseguitati, anzi ha salvato - con il suo impetuoso sbocco nella libertà - sopratutto i persecutori che sarebbero stati costretti a continuare nella loro triste missione, ondata di morti dopo ondata di morti.
Per questo chiunque, la sera del 22 aprile, si sia incontrato con il programma «RT, Rotocalco televisivo, Speciale Resistenza e resistenze», di Enzo Biagi, su Raitre, ha un debito in più verso il vecchio maestro che non rinuncia. E dopo cinque anni di esilio riprende con gli italiani, tra montagne di spazzatura e di vergogna, il discorso di libertà esattamente dal punto in cui lo avevano forzato a interrompere.
Come ricorderete Enzo Biagi è il primo, nella lista di alcuni protagonisti della televisione italiana (tra cui Michele Santoro, Daniele Luttazzi) licenziati personalmente con un potere che non aveva - ma che alla Rai, tramite personale subalterno, è diventato immediatamente esecutivo - dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Molti di noi hanno frequentemente citato con scandalo la motivazione di quel licenziamento: «attività criminosa». Con queste parole Silvio Berlusconi che - ci viene detto - non è nemico ma solo avversario, intendeva descrivere ogni attività di opposizione. E a molti di noi è sembrato naturale definire “regime” la situazione politica in cui un governante vuole e può mettere a tacere chi non lo esalta.
Ora, cambiato il tempo, il governo - e, un pochino anche il Paese e la Rai - Enzo Biagi ritorna. E con la sua trasmissione dedicata alla Resistenza, nel senso originale del 25 Aprile e nel senso perenne del non piegarsi solo perché qualcuno è più ricco e potente e ti può anche mettere al bando, racconta con la sua implacabile pacatezza che esiste una Italia incompatibile con l’Italia libera e democratica evocata da quel giorno e descritta nei dettagli dalla Costituzione. E che non è questione di sentimenti (inimicizia o gentile confronto) ma di nessun punto di corrispondenza fra un’Italia e l’altra. Dice che non bastano né le lacune della memoria né la potenza dei media (tuttora in prevalenza orientati a non offendere un grande editore che può comprare tutto, e può comprare molti) a oscurare l’incompatibilità di un’Italia con l’altra.
Credo che possa essere utile confrontare il sommario della trasmissione con cui Biagi torna in Tv con l’articolo di fondo de Il Giornale (autore Massimo Teodori) dello stesso giorno. Quell’articolo celebra la buona accoglienza riservata a Berlusconi nei due congressi fondanti del nascente PD, ma poi elenca le tappe, che per l’autore sono esecrabili, della “delegittimazione di Berlusconi”. L’Italia di Biagi si apre con Roberto Saviano e la piovra della camorra con cui non si può convivere, si chiude con Tina Anselmi, mai dimenticata investigatrice della P2, passa attraverso la Resistenza come guerra partigiana e lotta al fascismo.
Ci fa riascoltare la voce limpida di Primo Levi che descrive con la famosa chiarezza come si distrugge un essere umano. Ascolta Vittorio Foa da giovane: si poteva non resistere?
E colloca al centro il magistrato Gherardo Colombo, verso cui molti italiani si considerano debitori (come verso tutto il Pool di Mani pulite) per la coraggiosa, tenace, difficilissima difesa della reputazione dell’Italia, mentre stava per essere ricoperta da un blob di corruzione tra i più vasti e più estesi al mondo.
Dunque, lo stesso giorno in cui è andata in onda la trasmissione-manifesto di Enzo Biagi, Massimo Teodori ha scritto: «La storia (della delegittimazione e demonizzazione del “nemico” politico, Ndr) cominciò dal colle più alto con Oscar Luigi Scalfaro che distorse i poteri presidenziali contro il premier». Come è noto «li distorse» per impedire che il plurinquisito Previti, ora condannato in via definitiva, diventasse ministro della Giustizia, evitando dunque un grave insulto alla Repubblica e all’immagine dell’Italia nel mondo. L’articolo di Teodori continua: «La storia proseguì con l’accanimento giudiziario in sintonia con l’ala giustizialista dei post-comunisti». Si capisce l’intento.
“Accanimento giudiziario” deve diventare il titolo di un capitolo della storia italiana, quello dei processi a Silvio Berlusconi. L’autore evidentemente conta sul fatto che a poco a poco smetteremo di insistere nel raccontare ciò che è avvenuto davvero e finiremo per dire che, sì, quelle gravissime imputazioni non erano che vaneggiamenti di giudici comunisti. L’affermazione viene dalla casa che non ha esitato a dire e a ripetere che «bisogna essere mentalmente tarati per fare i giudici».
Ma l’autore del fondo de Il Giornale implacabile continua:
«Infine i girotondi espressero, ai limiti del grottesco, quell’animus giacobino tanto gradito ai piani alti della politica illiberale e della gauche caviar, la cui nobile aspirazione era vedere in manette il parvenu della politica».
Poiché i girotondi sono mobilitazione spontanea, diventa interessante l’evocazione dei «piani alti della politica illiberale» che vuol dire: è illiberale chi invoca «la legge uguale per tutti» e denuncia le leggi ad personam che la rendono «legge di uno solo». La frase è affetta da palese assurdità fattuale, logica e storica. Ma Teodori ha un punto di forza su cui poggiare la sua costruzione orwelliana del “ministero della verità”. Dice infatti in conclusione: «Se il Partito Democratico servirà a tenere a freno le pulsioni antidemocratiche tanto radicate nei politici di sinistra (ovvero l’ostinazione a ripetere : “la legge è uguale per tutti”, Ndr) sarà un passo avanti per l’Italia civile e liberale». Sembra chiaro che qui si sta accennando all’Italia di Previti, Dell’Utri, Cuffaro, dei beneficiari di condono continuo, degli evasori lodati perché «a un certo punto diventa legittimo frodare il fisco», degli scrupolosi autori dei falsi in bilancio, di personaggi come il sindaco An di Trieste che ha sempre rifiutato di recarsi alla risiera di San Sabba dove fascisti e nazisti massacravano gli ebrei.
Del resto il capo di tutta questa gente mai si è fatto trovare - lui che è dappertutto - ad una celebrazione del 25 aprile durante i cinque anni del suo celebrato governo costellato di canzoni e di allegre passeggiate a Villa Certosa. L’Italia di Tina Anselmi, di Oscar Luigi Scalfaro, di Gherardo Colombo, dei girotondi ne ha fatto a meno.
Come si vede la questione - che è giusto ripetere nel giorno della Resistenza incoraggiati dal libero ritorno in video di Enzo Biagi - non è di buona educazione (anche se è bene mostrare buona educazione quando Silvio Berlusconi si presenta al congresso di un partito che ha appena finito di considerare autore di «delitti, morte e miseria»). È una questione di incompatibilità. L’Italia della Liberazione e della Costituzione è incompatibile con l’Italia della illegalità che ha cercato, senza successo, di cancellare il 25 aprile e metà della Costituzione italiana nata dal 25 aprile. La scelta fra queste due Italie è una decisione drammatica che tocca agli elettori. A noi spetta il compito di rendere chiara l’alternativa.
* l’Unità, Pubblicato il: 25.04.07, Modificato il: 25.04.07 alle ore 8.40