LA PAROLA DI KAVAFIS
di GIULIO VITTORANGELI *
Nel nostro pensare affannoso, consideriamo le parole cosa seria da utilizzare con liberta’ senza inutili sprechi. Le parole sono forme del linguaggio, forme d’espressione; significano, indicano, commuovono, diventano idee, frecce conficcate nella ruvida pelle della realta’. Per tutto questo non dovrebbero mai essere usate per non farsi capire, per non dire niente, o peggio, per stravolgere la realta’ raccontando bugie.
"Durante gli anni del potere berlusconiamo eravamo in tanti a ritenere che il massacro della verita’ fosse una sua prerogativa. Assistevamo a spudorate violazioni del diritto e alla contestuale lamentazione di presunte offese subite. E pensavamo che ’noi’ non avremmo fatto lo stesso: ’noi’, una volta alla guida del paese, non avremmo fatto strame della verita’. Ci sbagliavamo. Stiamo affogando in un mare di bugie. Anche questo fatto costringe a chiederci che cosa sia nato prima, se Berlusconi o lo spirito di questi tempi. Non si tratta soltanto di deformazioni, di omissioni, di travisamenti ed edulcorazioni. Questo sarebbe semplicemente ’ideologia’, gemella della politica. Siamo al rovesciamento delle cose e alla creazione di un’altra realta’" (Alberto Burgio, sul "Manifesto" del 26 luglio 2007).
Anche Annamaria Rivera, alcuni mesi fa, aveva espresso un concetto molto simile, sottolineando la progressiva perversione del linguaggio e della comunicazione che accompagna il governo Prodi, e che lascia allibiti.
Se lo stile berlusconiano era all’insegna della menzogna aperta, trasparente e fanfarona, quello dell’attuale governo e dei suoi partiti ha qualcosa di orwelliano e contorto, al tempo stesso grottesco. Quando le parole sono usate a stravolgere l’esperienza e la realta’ fanno piu’ danni perfino dei contenuti delle politiche. Non solo perche’ ingannano i cittadini, considerandoli incapaci di farsi un’idea della realta’, ma soprattutto perche’ minano profondamente il rapporto fra i cittadini e le istituzioni, e alimentano sfiducia.
Occultare la dura realta’ delle concessioni - obbligate, ci dicono, e forse talvolta in parte e’ vero - ai poteri forti e agli orientamenti "moderati" (un altro termine da abolire) con il ricorso a formule autoconsolatorie ed ingannevoli - quale la litania della "discontinuita’" - e’ una forma di perversione della comunicazione a lungo andare autolesionista.
Salutare con entusiasmo la furbesca relazione del ministro degli esteri sulla politica internazionale come una scelta limpida e avanzata in favore del "multilateralismo" (un’altra parola magica: una guerra puo’ essere multilaterale e nondimeno resta illegittima, ingiusta, sanguinosa) e’ far torto alla propria storia politica e all’intelligenza degli elettori. Risultato: la "bonta’" della guerra; diventata "democratica", "umanitaria", "operazione di polizia", ecc. Cosi’, anche il conflitto fra capitale e il lavoro ha subito uno scivolamento semantico, sparendo il capitale e restando il lavoro come problema di solidarieta’ con i meno fortunati, salariati a vari livelli e, salvo i dirigenti, tutti retribuiti meno d’una volta e sempre piu’ precari.
La verita’ e’ che nel liberismo spinto in cui siamo, con permanenti delocalizzazioni e in preda alla speculazione finanziaria, ne’ l’occupazione ne’ il potere d’acquisto dei salariati possono essere protetti; mentre la pace e’ un disvalore non essendo funzionale allo "sviluppo" ed alla "ripresa economica".
Noi restiamo profondamente convinti che le parole non sono fatte "di carta", ma di vita; della carne viva di uomini e donne. Per questo continuiamo a cercare quelle parole che interpretano e capiscono i fatti e provano a cambiarli; quelle parole che diventano azione e, una volta gettate sulla platea della storia, si traducono in movimento; quelle parole che portano con se un’idea di politica che si oppone alle miserie retoriche e alle menzogne travestite da strategie del bushismo contemporaneo, anche di casa nostra.
"Spesso osservo quanto poco interesse affidano gli uomini alle parole. Mi spiego meglio. Un uomo semplice (e con "semplice" non intendo sciocco) ha un suo modo di vedere, ma sa che la grande maggioranza ragiona in modo antitetico, e tace, credendo che non giovi parlare, credendo che - con le sue parole - non cambiera’ niente. E’ un grande errore. Io agisco diversamente. "Condanno, ad esempio, la pena di morte. Appena mi si presenta l’occasione lo dico apertamente, non perche’ sia convinto che, esprimendo la mia opinione, gli Stati subito, domani, l’aboliranno, ma perche’ credo che dicendo il mio parere possa contribuire al trionfo della mia idea. Il mio discorso non va perduto. Forse qualcuno lo ripetera’ e cosi’ potra’ raggiungere le orecchie di alcuni che lo ascolteranno e lo sosteranno. Puo’ darsi che, tra quelli che adesso non sono d’accordo, qualcuno se ne ricordera’ - in un momento opportuno - nel futuro, e in occasione di altre situazioni, e che sia poi convinto con il supporto di altre circostanze, e che sia scossa la sua precedente convinzione contraria.
"Cosi’ avviene anche in diverse altre questioni sociali, in alcune nelle quali e’ indispensabile l’azione. So di essere codardo e di non poter agire. Per questo soltanto. Ma non credo che le mie parole siano superflue. Agira’ un altro. Ma le mie molte parole - le parole di un vile - serviranno per l’azione. Spianano il terreno". (Costantino Kavafis, 19 ottobre 1902).
* NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 167 del 31 luglio 2007