Politica e crimine
di Furio Colombo *
Cittadini attenzione. Il giorno 24 gennaio, il coordinatore nazionale di Forza Italia Sandro Bondi ha lanciato al Paese il seguente messaggio: «Prodi e gli altri non devono scherzare col fuoco. Esiste un limite oltre il quale un equilibrio democratico si può rompere. E al punto di rottura siamo quasi arrivati. Allora sono guai per tutti. Perché con Forza Italia al 32 per cento, come dicono tutti i sondaggi anche quelli commissionati dal centrosinistra sarebbe pericoloso tirare troppo la corda. Potrebbe provocare reazioni nel Paese, sommovimenti. Tutto ciò può determinare reazioni molto gravi della gente». (La Stampa, 24 gennaio 2007)
Siamo di fronte a un ultimatum: o rinunciate a governare o ci saranno rivolte nel Paese. Considerato il ruolo politico dell’autore di queste parole, è naturale immaginarsi una reazione giornalistica immediata, una serie di quelle tormentose interviste che seguono di solito una frase pronunciata dentro l’Unione sui Pacs, sul testamento biologico, sulla pretesa dei gay di non essere esclusi dalle unioni legittime. Invece (e forse persino Bondi si sarà meravigliato) silenzio.
Per capire ciò che sto dicendo immaginate per un momento che una frase così arrischiata («ci saranno rivolte») fosse stata pronunciata da un Diliberto o da un Giordano. Si sarebbero scatenati giornali e istituzioni. Si sarebbe parlato francamente del ritorno del pericolo comunista. Bondi invece brandisce i sondaggi contro le elezioni, e «vede» - certo da un punto di vista privilegiato, dato l’enorme potere economico a cui è vicino - sommovimenti e rivolte di tipo libanese.
Eppure alle parole di Bondi è seguito un cauto silenzio dei media, e un composto aplomb delle istituzioni che, a quanto pare, non si sono sentite turbate dall’annuncio (certamente autorizzato dal leader-padrone di Forza Italia) di sommosse descritte come inevitabili («se questi non se ne vanno...») e implicitamente approvate («esiste un limite»). «Questo decreto sulle nuove regole che vogliono imporre alle mie televisioni è un piano criminale verso il capo della opposizione e verso le sue proprietà private. Sono sicuro tuttavia che il governo non troverà complici per realizzazione questo progetto criminale. Vincendo le prossime elezioni amministrative dimostreremo i brogli elettorali che ci sono stati».
C’è anche un riferimento interessante per chi scrive nella dichiarazione di guerra qui trascritta: «Ho visto Ballarò. Dobbiamo fare anche noi a Mediaset un programma simile. Dobbiamo rispondere agli attacchi». (La Repubblica, 25 gennaio). Naturalmente avete riconosciuto la voce. È Silvio Berlusconi, il quale considera un attacco personale imporre regole di mercato alle sue televisioni. È una protesta comprensibile, se si tiene conto che lui è l’unico grande proprietario di televisioni private in Italia. Ed è l’unico politico al mondo che ha governato sostenuto da un partito formato dalle sue televisioni. Ma lui, senza pudore, annuncia che se si toccano gli interessi delle televisioni private di Silvio Berlusconi si attacca in modo grave e inaudito il capo della opposizione Silvio Berlusconi. Chiunque direbbe: risolviamo il problema con una buona legge sul conflitto di interessi. Berlusconi invece definisce «criminale» ogni intervento sulle sue proprietà. Lo costringerebbe a uscire dalla doppia illegalità: servire se stesso servendosi del Paese. Come vedete sono tre frasi esemplari, illogiche, prepotenti, minacciose. C’è l’orgogliosa identificazione del proprietario con il politico. Chi tocca l’uno tocca l’altro.
Questo spiega in che senso una testata è «omicida», (come i suoi dipendenti hanno detto de l’Unità, quando denunciava il conflitto di interessi di Berlusconi). Tra politica, proprietà e protezione di se stesso lui non vede alcuna differenza. Attacca e morde con una dichiarazione di guerra alle istituzioni a costo di autodenunciarsi come titolare del conflitto di interessi che ha passato anni a negare e altri anni a «risolvere» con la risibile legge Frattini che non prevede, per il pericoloso fenomeno alcuna sanzione.
Nel citato programma Rai Ballarò tutto lo schieramento berlusconiano negava che «lui» prendesse parte agli affari dell’azienda durante i Consigli dei ministri. «Ogni volta “lui” usciva. Ha affermato testualmente la ex ministro Prestigiacomo: «Do la mia parola d’onore che mai si è occupato dei suoi interessi». Simpatico, canagliesco e brutale, nella classica tradizione post romantica, il suo capo, benché così fedelmente assistito (fino all’impegno del proprio onore) la smentisce. Infatti dice: «Ho visto Ballarò e bisogna fare anche noi una trasmissione così a Mediaset. Dobbiamo rispondere a questi attacchi». In questo modo smentisce anche il suo rappresentante Confalonieri (che un po’ compare come vice ministro, un po’ come presidente Mediaset) che si era affannato a ripetere: «Le nostre tv al servizio di “lui” in politica? Mai, garantisco, mai!».
Ma lo spavaldo padrone non bada all’onore dei suoi e preannuncia una nuova battaglia di televisioni nella sua guerra infinita che tormenta l’Italia ormai da dieci anni. Durante questi dieci anni di doppio governo (affari e politica) Berlusconi ha raddoppiato la sua ricchezza.Eppure, forse per prudenza, nessuno accetta di considerarlo un pericolo. Anzi ti dicono, anche da sinistra, «non esageriamo, è un politico come gli altri». C’è una piccolissima differenza: Berlusconi è la quattordicesima ricchezza più grande del mondo, e due o tre capricci a quanto pare, se li può togliere quando crede. Però non si capisce perché, spargere intorno a lui il sussurro che più lo agevola: ma quale emergenza? Ma quale pericolo per la democrazia? E continuano a nascere proposte di cose da fare insieme. Prima o dopo le rivolte di popolo annunciate da Bondi?
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«Si riapre la catena di processi della Sme», titolano alcuni giornali più coraggiosi. Si riferiscono alla sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale la «legge Pecorella». Con essa il presidente della commissione Giustizia della scorsa legislatura (e avvocato personale di Berlusconi in tutte le legislature), aveva confezionato la liberazione di Berlusconi dai giudici di Milano. Il pm non poteva più proporre appello contro un imputato assolto. Ora che questa normale competenza è stata restituita alla pubblica accusa, alcuni processi contro Berlusconi (a parte i nuovi) potranno continuare in secondo grado.
Qual è la risposta dell’ex Primo ministro noto nel mondo per aver aperto il semestre europeo italiano dando del «kapò» all’eurodeputato tedesco Schultz che aveva osato accennare alla cacciata di persone libere dalla Rai e al conflitto di interessi? Eccola, da statista: «Questa sentenza dimostra che tutte le istituzioni sono in mano alla sinistra». Come vedete il senso del ridicolo è scomparso da tempo. Quel che disorienta è che sia scomparso dal giornalismo. Non un accenno, da nessuna parte, alla portata eversiva del commento a questa sentenza, specialmente se collegata alle parole di Sandro Bondi, che annunciano una imminente rivolta di popolo. Eppure tutto ciò in fondo è poco se confrontato a quello che è accaduto e sta accadendo con la vicenda Mitrokhin. Provate a immaginare la mobilitazione che si sarebbe scatenata se - per puro e sfortunato caso - fosse stato presente, nello stesso albergo e nella stessa stanza, uno sbadato passante in qualche modo legato all’Unione, mentre stavano avvelenando al polonio l’ex spia sovietica Litvinenko. È certo che ogni giorno, in ogni talk show, con ricostruzioni e modellini, quell’atroce delitto sarebbe sugli schermi pubblici e privati di tutte le reti italiane.
Invece mentre assassinavano Litvinenko era presente chissà come, chissà come mai, il prof. Scaramella. Che non è professore ma, di professione, spia personale della Commissione Mitrokhin, cioè spia retribuita dalla Repubblica italiana. Missione: svelare che Romano Prodi era stato «uomo del Kgb», ovvero preparare, in caso di perdita delle elezioni, una buona ragione per la rivolta di piazza di Bondi e la rivincita di Berlusconi sulle leggi criminali contro le sue aziende e le sentenze criminali contro la sua persona. Scaramella,a nome e per conto della commissione Mitrokhin e del Senato della Repubblica italiana,il suo lavoro l’ha fatto, benché sia finito in prigione per calunnia e vi resti tuttora. Litvinenko è morto di una morte spaventosa avvelenato chissà da chi. Ma, guarda caso, ha lasciato una testimonianza. Prima di morire ha detto: «Prodi era un nostro uomo», le esatte parole commissionate a Scaramella dalla Commissione Mitrokhin (come risulta dalle intercettazioni pubblicate). Dopo morto non ha niente da dire.
Il caso sconvolgerebbe qualunque Paese, anche fuori dalle tradizioni democratiche dell’Occidente. Infatti una commissione parlamentare con poteri giudiziari ha lavorato per anni e con abbondanti fondi dello Stato, assumendo consulenti che poi sono risultati «da galera», allo scopo dichiarato di eliminare il capo dell’opposizione. Se è «legge criminale» la mite legge Gentiloni perché tocca di striscio gli interessi privati di un uomo ricchissimo, che adesso è anche capo dell’opposizione, come definire la commissione Mitrokhin e i suoi scopi da colpo di Stato? Ma tutto questo ci da modo di verificare la vasta conseguenza del quasi completo controllo mediatico nelle mani non di una sola coalizione o di un solo partito ma di una sola persona.
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L’uso berlusconiano dei media pubblici e privati è così ferreo da cambiare la percezione degli eventi persino agli occhi degli esperti. E questo spiega la passione con cui Berlusconi si batte perché non glielo si limiti neppure marginalmente. E spiega perché non vuole sentire parlare di una vera legge sul conflitto di interessi nel senso del diritto occidentale. Infatti lo priverebbe della sua presunta magia carismatica. La persistenza negli anni di quel conflitto spiega anche qualcosa che altrimenti sarebbe davvero inspiegabile. Pensate che una rispettabile e rispettata docente associata di scienze politiche all’Università di Bologna, Donatella Campus, pubblica con le pregiate Edizioni del Mulino un testo scientifico intitolato «L’antipolitica al governo».
I tre personaggi esemplari proposti dalla prof. Campus sono De Gaulle, il generale che ha guidato la Resistenza francese e la rinascita di quel Paese, ha tenuto testa ai militari e fatto finire la guerra d’Algeria; Ronald Reagan, il personaggio che ha colto al volo l’occasione della Glasnost, ha aiutato il leader sovietico Gorbaciov a uscire senza danno dalle macerie del suo impero e ha - proprio lui, che parlava sempre di «impero del male» - portato Russia e America fuori dalla guerra fredda in modo dignitoso e indolore. E il terzo chi è? È Berlusconi, l’uomo che ha spaccato l’Italia e continua a spaccarla.
Nel libro della Campus Berlusconi è descritto come desidera essere Berlusconi, un audace liberal che si scrolla di dosso la politica tradizionale e inaugura un rapporto libero e inedito con la opinione pubblica. La Campus non nota che Berlusconi «entra in campo» con una cassetta, non in persona (dunque senza domande e senza dover rendere conto). E che da quel momento tiene costantemente i giornalisti a distanza e sotto intimidazione. A volte, fatalmente, e dopo gli esempi Biagi e Santoro, la categoria diventa ossequiosa. E incline alla celebrazione. Fenomeno irrilevante? È mai accaduto a De Gaulle o a Reagan? La Campus non nota le leggi ad personam, non nota le leggi vergogna, non nota l’uso degli avvocati difensori come deputati e senatori a capo di commissioni chiave per gli interessi personali del leader. Non nota la politica come finzione (Pratica di Mare), come repressione (Genova), come intimidazione ostentata e padronale (la messa in stato di accusa da parte dei suoi media, di chi gli tiene testa). Non nota l’illegalità di controllare e dirigere la Tv di Stato, mentre presiede controlla e dirige quella privata.
Il libro della Campus è il perfetto monumento al conflitto di interessi. Ci dice che quel conflitto di interessi, quando è abbastanza forte, colpisce soprattutto i media. Esso, infatti, cambia e riorganizza la percezione degli eventi anche gli agli occhi degli esperti. La controprova è nel libro di Marc Lazar uscito negli stessi giorni. Anche lui è un politologo ma, dalla Francia, lavora al riparo dal totale controllo mediatico che Berlusconi mantiene sull’Italia. Sentite che cosa scrive Lazar: «L’Italia è un grande malato e la terapia del dottor Berlusconi non gli ha permesso di ristabilirsi. L’economia ristagna e le prospettive sono fosche. Al di là dei proclami boriosi si perpetua una vecchia tradizione politica di immobilismo. Silvio Berlusconi non ha avviato alcuna liberalizzazione né innestato alcuna modernizzazione. Tuttavia ha verosimilmente significato un cambiamento completo dell’universo delle rappresentazioni mentali».
Berlusconi è certamente l’antipolitica. Ma in un senso distruttivo e vendicativo contro quella parte non piccola del suo Paese che non coincide con la sua proprietà. Solo il suo mondo inventato e strettamente sorvegliato dai media può avere indotto qualcuno, per quanto esperto, a scambiarlo per Reagan o De Gaulle.
* l’Unità, Pubblicato il: 28.01.07, Modificato il: 28.01.07 alle ore 8.24