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Politica

Lettera a Prodi, Fassino e Veltroni, da parte degli amici del Phorum Palestina e compagni

Sulla visita a Sharon: un documento da leggere subito e divulgare all’istante
sabato 21 maggio 2005 di Emiliano Morrone
All’On.le Romano PRODI
All’On.le Piero FASSINO
Al Sindaco Walter VELTRONI
Abbiamo appreso dalla stampa che avete in programma una visita in Israele, dove incontrerete ufficialmente il Primo Ministro Ariel Sharon. Riteniamo che questo incontro sia un atto politicamente inopportuno e moralmente deplorevole, per i seguenti motivi.
Ariel Sharon non è un leader politico qualsiasi: è direttamente responsabile dell’assassinio di migliaia di uomini e donne, la cui unica colpa era quella di essere (...)

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>Obama E ad Abu Mazen: «Sì ai due Stati»; ai palestinesi: «Meritate uno Stato». Obama sprona i giovani delle università: «Israeliani, guardate con occhi palestinesi»

venerdì 22 marzo 2013

Obama ai palestinesi: «Meritate uno Stato» Il presidente a Ramallah, tra rabbia e speranza Abu Mazen: «Stop alle colonie o niente negoziati»

di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 22.03.2013)

Al presidente del «Nuovo Inizio» chiedevano parole chiare sugli insediamenti e sulla possibilità di coltivare ancora, e con ragione, la speranza di uno Stato. Barack Obama e la Palestina. Barack Obama in Palestina. Il viaggio a Ramallah è una strada in salita per il presidente Usa. Il sentimento che accomuna la gente palestinese è un misto di rabbia e delusione. A raccontarlo sono le trecento persone che inscenano, agitando le scarpe, una manifestazione di protesta davanti alla Muqata, il quartier generale dell’Autorità nazionale palestinese in cui si svolge l’incontro tra il capo della Casa Bianca e il presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas (Abu Mazen).

«I palestinesi hanno diritto ad un loro Stato sovrano», ribadisce Obama durante la conferenza stampa a Ramallah, tenuta congiuntamente con Abu Mazen. «Non dobbiamo smettere di cercare una soluzione pacifica» ha continuato il presidente Usa, aggiungendo che gli Stati Uniti sono decisamente favorevoli alla soluzione dei «due stati».

La Palestina deve avere uno Stato «indipendente e in grado di sostenersi» nell’interesse sia dei palestinesi sia degli israeliani. Anche se risolvere la situazione degli insediamenti non porterà direttamente ad un accordo di pace con i palestinesi, continua Obama, «questo non vuol dire che la questione degli insediamenti non sia importante», ma, puntualizza Obama, significa che «non esistono scorciatoie» e che il modo migliore per portare la pace è quello di riaprire i «negoziati diretti» fra le parti. Per questo gli Stati Uniti hanno detto al premier Benjamin Netanyahu che la modalità con cui si porta avanti il progetto per nuovi insediamenti israeliani nella zona «E-1» non è appropriata per giungere ai negoziati di pace, rimarca Obama.

I CONFINI DEL ‘67

Una ripresa dei negoziati non è possibile senza un congelamento degli insediamenti israeliani nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza», avrebbe detto Abu Mazen a Obama nel corso delle due ore e mezza di incontro a Ramallah, secondo quanto riferito dal consigliere politico del leader palestinese Nemer Hammad. Concetto che, sia pur in modo più sfumato, è stato rimarcato dallo stesso Abu Mazen. I palestinesi vogliono che sia rispettato il loro diritto «all’indipendenza, alla libertà e alla pace», ribadisce il presidente palestinese in conferenza stampa a fianco di Obama. Abu Mazen rivendica il diritto per il popolo palestinese a vivere in una terra «secondo i confini del 1967 e con Gerusalemme est come capitale».

Dopo aver ringraziato il presidente Usa per aver espresso la richiesta di riaprire i negoziati, il leader dell’Anp ha detto che per arrivare alla pace ci vuole «coraggio» e non «violenza, arresti, occupazioni e insediamenti» e «l’assedio» da parte dello Stato di Israele. I palestinesi, sottolinea Abu Mazen, sono «pronti a rispettare le promesse fatte e i loro obblighi» per la soluzione dei «due Stati», ricordando da parte sua che «la chiave per la pace» risiede nel trovare unità di intenti «tra Hamas e Fatah».

«Chiediamo al governo israeliano di fermare gli insediamenti, per discutere tutte le nostre questioni e le loro preoccupazioni», incalza Abu Mazen al fianco di Obama. Questi ha sottolineato di aver fatto presente al premier israeliano, Benjamin Netanyahu, che la strategia di continuare a sviluppare gli insediamenti ebraici nei Territori palestinesi non è «costruttiva, appropriata, e non fa compiere passi avanti alla causa della pace». Abu Mazen, da parte sua, si è detto «convinto» che il presidente Usa e il segretario di Stato, John Kerry, sapranno «eliminare tutti gli ostacoli nel cammino verso la pace».

Il presidente americano ha condannato il lancio di razzi Qassam da parte dei miliziani palestinesi contro il sud di Israele condanna reiterata dallo stesso Abu Mazen, proseguito anche nelle ore precedenti al suo arrivo a Ramallah. All’alba le sirene d’allarme erano risuonate a Sderot, la città di confine dove Obama era stato nel 2008, quando era solo un candidato alla presidenza Usa, seguite dall’arrivo di quattro razzi (uno caduto nel cortile di un’abitazione). Non ci sono stati né danni, né feriti.


«Israeliani, guardate con occhi palestinesi»

Obama sprona i giovani delle università. E ad Abu Mazen: «Sì ai due Stati»

di Massimo Gaggi (Corriere della Sera, 22.03.2013)

GERUSALEMME - «Mettetevi nei loro panni, guardate il mondo coi loro occhi. Oggi a Ramallah ho incontrato ragazzi palestinesi che sono come voi: stessi desideri, stessi sogni. Non è giusto negargli il diritto di avere un loro Stato, né farli crescere con la presenza costante di un esercito straniero che controlla i loro genitori. Non è giusto impedire ai contadini di curare la loro terra, costringere molti a lasciare la loro casa, impedire ai giovani di muoversi liberamente in Cisgiordania, lasciare impunite le violenze di alcuni coloni». Nella giornata «clou» della sua visita in Israele e nei Territori palestinesi, ieri Barack Obama ha vissuto una giornata di straordinaria intensità, culminata nel discorso pronunciato davanti a una platea di giovani ebrei che ha invitato ad agire, a far sentire la loro voce per costringere i politici a uscire dallo stallo nel quale è finito il dialogo tra i due popoli.

Il presidente ha parlato con una franchezza - e in qualche passaggio una durezza - mai sperimentate da una platea israeliana in un’occasione così solenne. Eppure Obama è stato applaudito con calore perché nel suo discorso, attentamente calibrato, ha ribadito il sostegno assoluto e incondizionato per la sicurezza di Israele, anche e soprattutto sulla questione del nucleare iraniano («Non avranno mai la bomba e noi sosteniamo la protezione antimissile dai possibili attacchi col sistema "Iron Dome"»).

Ha, poi, reso omaggio a un Paese con una storia millenaria di lotta per la libertà e di martirio; una nazione che può essere «motore di prosperità per tutto il mondo». E’ arrivato ad abbracciare l’idea base del sionismo: il popolo libero che vuole vivere in una sua patria, la «Terra promessa» che diventa rifugio dalla diaspora.

La libertà va, però, curata, soprattutto nel Medio Oriente delle tensioni esplosive, ora accentuate anche dall’ayatollah Ali Khamenei che minaccia di distruggere Tel Aviv e Haifa se verranno colpiti gli impianti nucleari iraniani. «Spetta a voi decidere come restare sicuri e democratici» ha detto Obama. «Per me, alleato che sarà comunque al vostro fianco, sarebbe più facile non intervenire, evitare discorsi che a molti non piacciono. Ma io vi parlo con la confidenza di un amico: la pace è l’unico modo per garantirvi davvero la sicurezza. E la pace va negoziata. Decidete voi come. So che è difficile e frustrante, che molti tentativi hanno avuto esiti negativi».

Ma Israele, ha incalzato Obama, è il Paese più potente dell’area: «Dovete avere la saggezza di capire il mondo com’è, ma anche il coraggio di vederlo come dovrebbe essere».

Di coraggio il presidente americano ieri ne ha usato molto: prima è andato a Ramallah, a incontrare il presidente palestinese Abu Mazen. Una visita difficile con la contestazione di alcuni dissidenti palestinesi e quelli radicali di Gaza che hanno ricominciato a lanciare razzi contro il territorio israeliano. Obama non ha concesso nulla ad Abu Mazen, chiedendogli di riprendere il dialogo con Israele senza condizioni, pur riconoscendo che lo sviluppo di nuovi insediamenti dei coloni ebraici in Cisgiordania è un grosso ostacolo alla pace.

Poi, però, davanti a una platea tutta ebraica, ha avvertito che, anche se Israele ha buone ragioni per essere diffidente, commetterebbe un errore se non sfruttasse lo spiraglio che si è aperto con Abu Mazen e il premier palestinese Fayyad. Sulla cui buona fede Obama scommette senza riserve. Certo, anche se coraggioso e nobile, quello del presidente Usa è pur sempre un discorso dietro il quale non si vede un piano.

Lo stesso Obama ha ammesso che la situazione è assai complicata: ma, scavalcando il premier Netanyahu, ha invitato i giovani d’Israele a far sentire la loro voce spingendo il governo sulla via delle concessioni e del negoziato. «Ve lo dico da politico», ha scandito: «Noi non facciamo scelte difficili, non prendiamo decisioni impopolari se non veniamo spinti dalla gente».

E, per convincere una platea che si è spellata le mani sulla creazione dei due Stati indipendenti, ma è stata molto più tiepida sui riconoscimenti al popolo palestinese, Obama ha usato le parole del «falco» Sharon: Israele può avere molto, ma se pretende troppo rischia di perdere tutto.

L’avvertimento di un amico, non della superpotenza che impone la trattativa. Obama, leader di un’America che presto sarà indipendente dalle forniture energetiche del Medio Oriente, si affida ai popoli e ai giovani. Con parole ispirate quasi quanto quelle del Cairo, 4 anni fa, ma un atteggiamento più disincantato.


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