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Politica

Lettera a Prodi, Fassino e Veltroni, da parte degli amici del Phorum Palestina e compagni

Sulla visita a Sharon: un documento da leggere subito e divulgare all’istante
sabato 21 maggio 2005 di Emiliano Morrone
All’On.le Romano PRODI
All’On.le Piero FASSINO
Al Sindaco Walter VELTRONI
Abbiamo appreso dalla stampa che avete in programma una visita in Israele, dove incontrerete ufficialmente il Primo Ministro Ariel Sharon. Riteniamo che questo incontro sia un atto politicamente inopportuno e moralmente deplorevole, per i seguenti motivi.
Ariel Sharon non è un leader politico qualsiasi: è direttamente responsabile dell’assassinio di migliaia di uomini e donne, la cui unica colpa era quella di essere (...)

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> LA NAKBA, LA CATASTROFE. Si commemora oggi 15 maggio: è il momento cruciale dell’espulsione del popolo palestinese dalla propria terra e coincide con la nascita ufficiale dello Stato d’Israele nel 1948.

venerdì 15 maggio 2015

Il lungo viaggio dei rifugiati palestinesi

di Alberto Negri (Il Sole-24 Ore, 15.05.2015)

La Nakba, la catastrofe, si commemora oggi 15 maggio: è il momento cruciale dell’espulsione del popolo palestinese dalla propria terra e coincide con la nascita ufficiale dello Stato d’Israele nel 1948.

I fotografi del’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per gli aiuti di emergenza, hanno narrato l’esperienza dei rifugiati palestinesi sin dall’inizio delle operazioni umanitarie nel 1950: questa gallery è solo una parte della mostra fotografica portata in Italia che narra il lungo viaggio della popolazione palestinese. foto

Per i palestinesi la Nakba non ha rappresentato soltanto la perdita dei beni materiali ma un’espropriazione della propria vita e della propria identità, costretti a vivere da quel momento in bilico e in continuo esilio da un paese all’altro, affrontando pesanti discriminazioni e subendo gli umori politici dei vari stati ospitanti, fossero essi stati arabi o occidentali.

La Nakba e le sue conseguenze si sono protratte fino ai giorni nostri, ripercuotendosi sui palestinesi, rifugiati ormai di quarta o quinta generazione, un anniversario che oggi coincide tra l’altro con il viaggio a Roma e dal Papa del presidente palestinese Abu Mazen il quale si augura che l’Italia “segua l’esempio del Vaticano nel riconoscere il nostro Stato”. Un’immagine si fissa nell’ultimo conflitto del luglio 2014, la terza guerra su Gaza in cinque anni. Donne, tante donne, che circolano tra le macerie sollevando sassi come macigni, sono infuriate e alzano le braccia al cielo, come se ci fosse ancora un cielo sopra di loro. Davanti alle telecamere una ha un gesto di rabbia e urla: “Ditelo a Netanyahu che anche i bambini di nove anni qui chiedono l’esplosivo”.

In questa disperazione infinita è affondato lo stato dei palestinesi, argomento intorno al quale le nazioni arabe hanno fatto piombare il velo del silenzio. Nel 1947 l’Onu approvò la partizione tra Palestina e Israele mettendo Gerusalemme sotto regime internazionale. Un anno più tardi i palestinesi si ribellarono ma furono sconfitti. Israele si spinse oltre i confini imposti dall’Onu e conquistò la metà occidentale di Gerusalemme.

Intere comunità di palestinesi vennero cacciate: 700mila furono i rifugiati i cui discendenti adesso ammontano a 7 milioni, il diritto al ritorno è impossibile. L’occupazione di Gaza e Cigiordania iniziò nel 1967 e fu il risultato della Guerra dei Sei Giorni, scoppiata tra Tel Aviv e i vicini arabi, Egitto, Siria, Iraq, Giordania, dove i palestinesi si rifugiarono a migliaia. Di questi stati la Siria non esiste più, sul Golan non ci sono più i soldati di Assad ma scorazzano gli estremisti islamici di Jabat al-Nusra finanziati dal Qatar, mentre quel che resta dell’Iraq non è ancora in grado di riprendere il controllo delle città in mano al Califfato. L’Egitto si difende in Sinai dai jihadisti e attacca in Libia per estendere una sorta di fascia di sicurezza come quella che Tel Aviv aveva in Libano. Quanto alla Giordania degli hashemiti, agli occhi di Israele con il suo 70% di popolazione palestinese resta il “candidato ideale” per ospitare un giorno un futuro stato nazionale.

Tel Aviv si è ritirata dalla Striscia nel 2005 ma mantiene un embargo che l’ha trasformata in una sorta di prigione a cielo aperto: nessuno entra, nessuno esce. Il resto della Palestina vive una sorta di apartheid, con doppio regime per ebrei e palestinesi. Al punto in cui si è arrivati gli israeliani, qualunque governo si installi, non possono tornare indietro. Nei Territori Occupati ci sono 500mila coloni. Ma quale governo avrebbe il coraggio di sloggiarli? Negli anni di Netanyahu al potere l’occupazione è penetrata nel cuore della West Bank con la moltiplicazione delle colonie. Eppure il premier non è l’unico nemico dei palestinesi. Se ne è aggiunto un altro: gli arabi e il contesto in cui vivono. La negazione da parte di Netanyahu della soluzione due popoli due stati può sembrare ancora una volta provocatoria ma corrisponde a una realtà lacerante: il concetto stesso di stato arabo come nozione territoriale e istituzionale unitaria è in disgregazione. Pensiamo soltanto ai milioni di profughi siriani e iracheni nella regione: non sappiamo neppure dove farli tornare. Ormai c’è soltanto un’ex Siria, implosa con oltre 200mila morti e 9 milioni di rifugiati, mentre l’Iraq è diviso tra sciiti, sunniti e curdi, il Libano è sempre sull’orlo del confronto tra fazioni, l’Egitto fatica a stare a galla, lo Yemen è nel pieno di un conflitto civile, della Libia non parliamone. Una situazione che spiega perché dei palestinesi e del loro stato siano gli stessi arabi a non occuparsene più: hanno altro cui pensare.


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