Palestina, la battaglia dell’Unesco
L’organizzazione verso il pieno riconoscimento. Gli Usa insorgono: tagliamo i fondi
Israele teme che l’Anp chieda la protezione internazionale dei siti nei Territori
di Alberto Stabile (la Repubblica, 07.10.2011)
BEIRUT - È per lo meno dai tempi degli accordi di Oslo (1993) che l’autorità palestinese chiede, ogni due anni, in occasione della celebrazione del Consiglio generale dell’Unesco, il pieno il riconoscimento come membro effettivo dell’Agenzia delle Nazioni Unite preposta alla salvaguardia del patrimonio educativo, scientifico e culturale del mondo. La novità è che, mercoledì, per la prima volta, il comitato esecutivo dell’organizzazione ha deciso a maggioranza (ma con il voto contrario degli Stati Uniti) di portare la richiesta di full membership palestinese al voto del Consiglio generale che si riunirà dal 15 Ottobre al 10 Novembre, a Parigi. Una decisione che ha irritato Hillary Clinton e provocato le ire del Congresso a maggioranza repubblicana, al punto da minacciare d’interrompere il flusso dei finanziamenti americani all’Unesco, circa 250 milioni di dollari, ogni due anni. Ma perché gli Stati Uniti, anche stavolta spalleggiati da Israele, si oppongono alla promozione dell’Autorità palestinese da "osservatore" a membro a pieno titolo dell’Unesco? La prima, ovvia risposta è che gli americani ritengono che la richiesta presentata all’Unesco non sia altro che una mossa per accentuare la pressione sul Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dopo che il tentativo dei palestinesi di vedersi riconoscere come Stato è stato in qualche modo indirizzato verso una sorta di labirinto burocratico.
Ma c’è un altro motivo che spinge israeliani e americani, a respingere il tentativo di riconoscimento avanzata dai palestinesi all’Unesco. I due alleati temono, in sostanza che una volta sancita la partecipazione a pieno titolo dei palestinesi all’Unesco, gli stessi potrebbero più agevolmente richiedere la protezione internazionale per quei luoghi di interesse archeologico, religioso e culturale che sorgono nei Territori occupati e, comunque, contesi e che sono attualmente sotto sovranità israeliana. In altri termini, la guerra dei siti come aspetto collaterale del più generale conflitto sulla terra.
Già un paio di anni fa il premier Netanyahu stupì il mondo includendo unilateralmente nel patrimonio cultuale israeliano siti quali la tomba di Rachele (Betlemme), la Tomba di Giuseppe (Nablus) e la moschea-sinagoga di Hebron (Mapela, o Grotta dei Patriarchi per gli ebrei, Al Haram al Khalil per i musulmani) che si trovano in zone tuttora al centro del conflitto. I palestinesi risposero stilando, in modo del pari unilaterale, un loro elenco di siti attestanti l’originalità del loro patrimonio nazionale e la loro titolarità sullo stesso. Ad aprire la lista era la città di Betlemme con al centro la Chiesa della Natività (VI Secolo). Seguiva poi la città vecchia di Hebron e la kasbah di Nablus gravemente danneggiata dalle incursioni israeliane durante la Seconda intifada, il sito romano di Sebastia, Tell al Suitan a Gerico e così via.
L’autorità palestinese celebrò quel passo come una vittoria, ma l’Unesco respinse la richiesta obbiettando che non poteva essere un "osservatore" a chiedere l’inclusione di un sito nel patrimonio mondiale, ma uno Stato membro. E’ del tutto evidente che quell’obiezione potrebbe essere travolta dall’imminente decisione del Consiglio generale dell’Agenzia.
Non c’era Gerusalemme nella lista preparata dai palestinesi, perché la Città santa e le sue mura appartengono al Patrimonio mondiale dell’Unesco sin dal 1982. Il che, però, non ha impedito ai progettisti della metropolitana di superficie di far passare la ferrovia a cinque metri, e forse, meno, dalle mura di Solimano il Magnifico. La città vecchia di Gerusalemme, resta, tuttavia, per i palestinesi non meno che per gli israeliani testimonianza viva della loro appartenenza.