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Petrolio e guerre...

SUDAN. DARFUR, DISASTRO UMANITARIO. MESSAGGIO E APPELLO DI KOFI ANNAN

lunedì 4 dicembre 2006 di Federico La Sala
[...] le testimonianze raccolte in questi mesi dall’autorevole coordinatore dell’Onu per le emergenze umanitarie, Jan Egeland parlano chiaro. Evocando nei suoi rapporti, anche gli scontri nelle regioni confinanti del Ciad e della Repubblica Centroafricana, oltre alle nefandezze perpetrate nel Darfur dai jajaweed, i feroci predoni al soldo di Khartoum, Egeland ha ripetutamente espresso grave preoccupazione per la regionalizzazione del conflitto [...]
Kofi Annan finalmente alza i toni
Darfur, (...)

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domenica 31 dicembre 2006

IL J’ACCUSE DI DESMOND TUTU *

L’Onu ha considerato quella del paese africano come la peggiore crisi umanitaria al mondo, ma non ha speso il proprio peso politico affinché il Sudan accetti una forza multinazionale di pace. La voce del grande leader anglicano

Darfur.Il grande silenzio sul genocidio

«Molte delle nostre nazioni sono maledette dalla loro ricchezza mineraria. Il Darfur ha la sfortuna di trovarsi in un paese con vaste riserve petrolifere. La Cina, la Francia e la Russia, fanno affari con il governo sudanese e sono riluttanti a mettere a repentaglio le loro relazioni commerciali»

Ecco un problema dell’Africa: i nostri genocidi tendono ad avvenire lontano dalle telecamere. Nel 1994 in Ruanda fu ucciso quasi un milione di persone; negli ultimi vent’anni nel Sudan meridionale ne sono morti due milioni; dal 1997 nella Repubblica Democratica del Congo ne sono morti quattro milioni. Il totale è agghiacciante, ma avrà ottenuto a malapena una colonna d’inchiostro o un minuto di diretta.

Nel decimo anniversario delle stragi in Ruanda è stato detto che non si permetterà mai più che civili innocenti siano macellati impunemente. Ma proprio mentre i politici deploravano il mancato intervento della comunità internazionale, era in atto un altro genocidio africano.

Nel nostro mondo di notizie a ciclo continuo, ventiquattr’ore su ventiquattro, si potrebbe perdonare alla gente di non sapere dell’esistenza del Darfur. Ha vinto la politica del governo sudanese di ostacolare l’accesso dei media e dei gruppi umanitari a quella remota regione occidentale.

Dal 2003 in Darfur due milioni di persone sono state vittime della pulizia etnica, ogni giorno donne e ragazze vengono sistematicamente stuprate e torturate, nei campi profughi c’è il colera e la violenza sta tracimando nel vicino Ciad. E tutto questo senza l’attenzione, o la risposta, che merita.

Il Programma per l’Alimentazione Mondiale avverte che non riesce a raggiungere in Darfur metà della popolazione bisognosa, e che il resto riceve razioni inferiori al fabbisogno minimo giornaliero. Le forze armate sudanesi, e le milizie Janjaweed che agiscono per loro, hanno intensificato gli attacchi ai civili, mentre i cooperanti vengono uccisi nonostante la recente firma di un accordo di pace.

La scorsa estate, dopo trenta giorni di guerra tra Israele e Hezbollah e un migliaio di morti, la comunità internazionale è giustamente intervenuta e ha inviato una missione di peacekeeping dell’Onu. Nel Darfur, dopo tre anni e mezzo e un bilancio stimato di trecento o quattrocentomila morti, non è ancora chiaro se verrà i nviata una forza delle Nazioni Unite. Noi africani ne deduciamo che al nostro continente vengono applicate due misure.

In tutto il mondo, da Città del Capo a Londra, da Mosca a New York, cittadini preoccupati domandano perché non siano ancora entrate in vigore le risoluzioni sul Darfur del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Stiamo ancora aspettando l’istituzione di una «no-fly zone», sanzioni mirate contro gli artefici del genocidio e il deferimento al Tribunale internazionale per i crimini di guerra. Non stupisce che il regime di Khartoum neghi l’accesso al Darfur alla missione di peacekeeping dell’Onu.

Di fatto, nel Darfur la gente viene ancora terrorizzata e uccisa impunemente. L’Onu ha riconosciuto quella del Darfur come la peggiore crisi umanitaria al mondo, ma non ha messo in atto una pressione costante sul governo sudanese affinché accetti l’invio di una forza multinazionale di pace.

Intanto, mentre continua la goffa ricerca di scuse per abbandonare il Darfur, gli esperti consultano i libri di storia per trovarvi prove di «antichi odi tribali o etnici» con cui liquidare la «ferocia» dei genocidi africani (come se non fosse avvenuta la stessa cosa appena sessant’anni fa nel cuore dell’Europa).

Dovremmo diventare sospettosi quando sentiamo dire che la pulizia etnica di civili indifesi è in realtà una guerra civile. Intendono dire: «Quei selvaggi si azzuffano tra loro». Come possono aspettarsi che noi mettiamo a rischio i nostri soldati quando non c’è nessun «buono» da difendere?

Un’altra giustificazione per la nostra inazione è: «La situazione è più complicata di quanto pensiate voi idealisti». Nel Darfur, dicono, non si può dividere la popolazione tra arabi aggressori e neri africani vittime.

È vero, ci sono matrimoni misti e ci sono problemi che riguardano la proprietà della terra e la scarsità d’acqua a causa del cambiamento climatico. Ma quelli che si riconoscono come neri africani vengono uccisi da altri che li considerano razzialmente inferiori e pri vi del diritto di vivere nella terra dove sono nati. Nel Darfur è stato distrutto il novanta per cento dei villaggi dei neri africani.

Ecco un altro problema dell’Africa: molte delle nostre nazioni sono maledette dalla loro naturale ricchezza mineraria. Il Darfur ha la sfortuna di trovarsi in un paese con vaste riserve petrolifere. La Cina, la Francia e la Russia, tutti membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, fanno affari con il governo sudanese e sono riluttanti a mettere a repentaglio le loro relazioni commerciali.

Nel 2001 Tony Blair dichiarò che se fosse accaduto un nuovo Ruanda la Gran Bretagna avrebbe avuto il dovere di intervenire. La Gran Bretagna merita un enorme plauso per aver guidato il mondo nella sua generosa risposta all’emergenza umanitaria in Darfur. Il governo deve guidare anche la comunità internazionale verso la coraggiosa decisione di intervenire di fronte al genocidio.

Qualche anno fa un politico americano commentò che se fosse stato tempestato di telefonate di elettori preoccupati che gli chiedevano di fare qualcosa per il Ruanda, sarebbe stato costretto ad agire.

Per favore, pregate per il Darfur. Poi fate in modo che le vostre preghiere guidino le vostre azioni: chiedete ai vostri rappresentanti eletti di invocare l’intervento di una forza dell’Onu, non simbolica, con il mandato effettivo di proteggere i civili nel Darfur. «La fede senza le opere è morta» (Giacomo 2,26). (traduzione di Anna Maria Brogi)

© Desmond Tutu 2006

* AVVENIRE, 31.12.2006


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