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A SALVADOR ALLENDE. "Vorrei essere in Cile tra i miei cari": Luis SEPULVEDA. Pinochet: ci rubò l’esistenza.

lunedì 4 dicembre 2006 di Federico La Sala
Ci rubò l’esistenza
di Luis Sepulveda *
Sono chiuso in casa da tre settimane per terminare un romanzo, senz’altra compagnia se non quella del mio cane Zarko e del mare, felice tra i miei personaggi, ma dalle prime ore di domenica, ho cominciato a ricevere delle telefonate dei miei amici e amiche del Cile.
«Prepara i calici», mi dicono dal mio lontano paese. Ho pronta una bottiglia di Dom Perignon in frigorifero. È un riserva speciale e me la regalò a questo fine il mio caro amico (...)

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> A SALVADOR ALLENDE. "Vorrei essere in Cile tra i miei cari": Luis SEPULVEDA. Pinochet: ci rubò l’esistenza.

lunedì 11 dicembre 2006

Storia del generale sanguinario

di Maurizio Chierici *

Non se ne è andato l’ultimo generale dagli occhiali neri, maschera che ha accompagnato ogni dittatura militare. Pinochet era l’alta uniforme che ha sperimentato le nuove armi del liberismo trasformando il Cile nella cavia dei Chigago’s Boys, quella dottrina di Friedmann, venerato premio Nobel appena scomparso. Ha sgretolato l’America Latina. Libertà di impresa per imprese privilegiate e povertà per il resto della popolazione, gabbia della quale la democrazia di Santiago non si è ancora liberata. Solo la mano militare poteva imporre le trasformazioni che hanno impoverito i deboli, costringendoli a una migrazione non solo politica, spesso economica: due paure che si mescolavano. Sindacati sciolti, porte aperte alle importazioni straniere, disinteresse dello stato per problemi assistenziali e sociali. Una sera 1980, la tv annuncia che le pensioni vengono abolite: ogni lavoratore deve arrangiarsi da solo. Nessuna obiezione. Proibito discuterne. Il laboratorio prospera nel sigillo militare lungo 17 anni, respiro necessario all’imposizione forzata che è mancata ad Argentina, Uruguay, perfino al Brasile. I militari sono caduti prima, ecco la spiegazione delle economie precipitate e risorte mentre il Cile sperimentava il liberismo nel quadro ideale della dittatura.

L’immagine corrente di Pinochet è un’altra: tremila vittime nei giorni del golpe, torture e sparizioni senza una tomba, corpi trafugati nelle miniere abbandonate nel deserto, e libri di scuola che nascondono perfino il nome di Allende fino a quando il presidente Lagos ordina di riscriverli per precisare la storia. Trent’anni dopo, una generazione cresciuta al buio. La paura solo adesso comincia a svanire.

La vita di Pinochet è la vita di un militare che obbedisce e vuole essere obbedito, non importa la morale dell’ordine che dà o riceve. Nato a Valparaiso comincia la carriera quand’è ragazzo attraversando gerarchie burocratizzate, chiuse in caste imperforabili. Ma la fortuna un giorno lo bacia in fronte. Nel 1946 Gabriel Gonzales Videla vince le elezioni col voto di radicali, socialisti e comunisti. Washington se ne preoccupa o lo invita ad un colloquio. Non solo per il rame della multinazionale Itt che sfrutta la più importante miniera del mondo, ma per il timore che la striscia di un paese lungo quattromila chilometri possa contaminare con la sua febbre maligna, Bolivia, Perù e l’Argentina di Peron. Videla torna da Washington ed è un altro uomo. Fuori legge i comunisti, abbandona i socialisti per legarsi ai conservatori intransigenti delle grandi proprietà. Ribellioni, scontri, esercito che spara. Tanti arresti, le prigioni non bastano, ecco l’idea di creare un campo di concentramento, tre mila chilometri a nord di Santiago, nel deserto sabbia e sale di Atacama. Pisagua era un villaggio fuori dal mondo: pochi pescatori. Deve diventare un lager. A sorvegliare i lavori è comandato il capitano Augusto Pinochet: 1947. Si comporta talmente bene che la carriera ha un soprassalto. Viene ammesso all’Accademia di Guerra, lasciando il reggimento Carampangue di Iquitos, città sul bordo del deserto e non ancora la città di vacanza dove oggi la famiglia Pinochet possiede gli ultimi quattro piani di un grattacielino sul mare.

La sua ascesa culmina nell’abbaglio del presidente Allende, estate 1973, storia conosciuta. «La carovana della morte», ultimo libro di Patricia Verdugo pubblicato in Italia da Feltrinelli, non solo racconta la serenità con la quale organizza i delitti, ma è anche la testimonianza che aiuta il giudice spagnolo Garzon a far arrestare Pinochet a Londra. Insomma, il burocrate che insegna guerre virtuali nei cortili delle accademie, diventa primo attore per l’innocenza di Allende e del generale Pratts, comandante delle forze armate. Pratts non piace alla Washington di Kissinger: troppo ligio alla costituzione, avrebbe impedito la rivolta contro Allende, presidente eletto. Il quale Allende fino alle ultime ore considera Pinochet ufficiale leale, riservato come è giusto sia, freddino ma corretto. Gli annuncia quali mosse ha in mente per frenare la disobbedienza militare. Un discorso alla nazione. Può contare sui suoi suggerimenti? A disposizione, risponde Pinochet già coinvolto nel golpe. Walker, capo della Cia per l’America Latina, a Santiago da settimane per pianificare l’operazione resta contrariato dalla scelta: «Presuntuoso, stupido, inconcludente», ricorda nel libro di memorie. Pinochet non gli piace, ma la promozione di Allende gli ha regalato la poltrona chiave nella trama della ribellione. E Pinochet non delude. Costringe alla morte Allende e assassina il benefattore Pratts in Argentina, assieme alla moglie.

Ma è la grettezza del Pinochet privato a far capire la pasta dell’uomo. Non solo i conti segreti della Banca Riggs, o il quintale di lingotti d’oro sepolti nei forzieri di Hong Kong. Nel 1984, Moniga Madariaga, scrittrice di terza fila la cui opera magna é la biografa di sua eccellenza, viene promossa ambasciatrice alle Nazioni Unite. Festa di benvenuta a New York, tanti complimenti. Le si avvicina una giovane signora accompagnata dal marito che è un funzionario americano. «Splendida collana, ambasciatrice: sei smeraldi, otto rubini, dieci diamanti abbracciano il fermaglio dietro al quale è fissata un’acqua marina». «È il regalo di buon augurio del presidente. Me l’ha consegnata di persona prima della partenza da Santiago. Gentiluomo d’altri tempi». Ma la precisione del complimento incuriosisce Monica Madariaga: «Cara signora, lei é un’osservatrice formidabile. In due secondi ha visto le pietre che non si vedono. Come fa?». «Conosco molto bene la collana. Quand’ero bambina la mettevo per gioco. Apparteneva a mia madre. L’hanno rubata gli ufficiali dei servizi segreti, quella Dina agli ordini del generale Pinochet che portato via la mamma. Non è più tornata. E mi sono commossa rivedendo il collier, dopo tanto tempo».

Ho incontrato Pinochet due volte, ma senza la possibilità di rivolgerli domande. La prima il 12 settembre 1993. Festeggiava nel cortile della scuola militare O’Higgins, il ventesimo anniversario del «sacrificio dei valorosi che si erano immolati per liberare la patria del comunismo». Caduti mentre soffiavano nel golpe, insomma. Avrebbe voluto far coincidere la celebrazione con l’incendio della Moneda e la morte di Allende, ma il consiglio dell’ambasciatore americano gli fa cambiare idea. E anticipa di un giorno. Quel 12 mattina i giornalisti stranieri vengono sistemati a ridosso della tribunetta dove il generale e la moglie seguono i volteggi degli allievi in parata. Il generale dalla giacca bianca e ben decorata ogni tanto si appisola dietro gli occhiali scuri. È più vecchio di come le foto autorizzate lo presentano sui giornali. Al momento del discorso confonde le parole, perde i fogli. La voce di vetro si attenua fino a diventare brontolio che il microfono non coglie. Guida l’esercito più forte e più costoso dell’America Latina ed è il generale più anziano del mondo. Povero vecchio che sputa saliva ad ogni parola. Il dubbio del momento è se la sua carcassa possa suscitare pietà per l’uomo che ha inventato la paura in un paese un po’ noioso, e, prima del suo regno, civile come un angolo di Danimarca. Poi il generale lascia il comando delle forze armate la cui potenza condizionava Alwin, primo presidente della democrazia. Diventa senatore grazie alle leggi che si è scritto in previsione della vecchiaia. Altre leggi hanno cancellato con l’amnistia ogni delitto. Tutti immacolati. Ma poi arriva Garzon.

Nel «testamento» dettato nel 2004 (intervista a TeleMarti. Televisione del Dipartimento di Stato, sede Miami) Pinochet si costruisce un monumento. Pedagogia degli oppressori sensibili all’intrallazzo che nei tropici prevede il delitto. Eliminare comunisti e socialisti può essere considerato un crimine? Nel 1973 erano le forze del male. Se fossero sparite prima, chissà quanti Pinochet disoccupati e senza fortuna. L’età lo autorizza ai ricordi nell’ultima intervista: «L’ho ripetuto tante volte ai cileni: se i militari non fossero intervenuti, i comunisti di Allende avrebbero impedito alla gente di respirare. La guerra fredda in America l’ho vinta io...». Libertador - liberista: «Non voglio che le future generazioni pensino male di me e desidero sappiamo realmente come ho tenuto fede agli impegni nella convinzione che liberismo e democrazia siano principi irrinunciabili». Chi non era d’accordo diventava il comunista da perseguitare anche se cattolico o senza idee. Comunista Garzon per averlo costretto alla prigione rosa di Londra. 503 giorni di un esilio consolato da amici in pellegrinaggio nella bella casa di campagna dove la signora Thatcher andava a bere il tè. «Garzon cercava solo onori e carriera». Comunista il magistrato cileno Guzman: ha osato rompere il patto di mutuo soccorso, che unisce i gentiluomini, per raccogliere le testimonianze dei torturati e dei figli delle vittime, pretendendo dalla Corte Suprema il sacrilegio del rinvio a giudizio. Perché lo ha fatto? Sbigottimento della famiglia Pinochet. Continuano le ultime parole pubbliche del generale: «il mio successo internazionale ha riscattato l’immagine opaca dei precedenti governi». Per fortuna il «teorema di Guzman si è scontrato con le verità della storia ed è stato sbriciolato». Povero pensionato costretto ad affrontare le torture della magistratura politicizzata. «Accuse che considero oltraggiose. Subisco un calvario a mezzo stampa che tutto imbroglia e tutto confonde. Ho combattuto la prospettiva di una rovina personale con le risorse degli affetti che mi circondano e di un carattere che è forte sebbene non impermeabile al male di vivere...Ho preso atto del fiorire della calunnia, fiore velenoso. Ho opposto alle infamie, la solidarietà delle persone che mi vogliono bene e la dignità della mia coscienza».

Dalla prigione di Londra e dalla libertà di chi invecchia fra i cavilli degli avvocati nella residenza di Santiago del Cile, il generale ha sempre ripetuto di non potersi pentire per aver difeso la patria. Per fortuna tutte le toghe delle corti supreme gli dovevano qualcosa e hanno bloccato Guzman e gli altri riconoscendo al generale la «demenza senile». Finale triste, quasi un ergastolo psicologico che infanga l a dignità militare: Se vogliamo stemperato dalla presenza di Pinochet ad ogni festa importante fino a quando l’età non l’ha raggiunto. Gli ultimi miei incontri nel novembre 2004: inaugurazione autosalone Mercedes, inaugurazione nuovo supermercato a Los Condes. Brindisi alle signore con whisky di malto. Il generale racconta, le ingioiellate sorridono. Che bravo, che spiritoso. «Si sta avvicinando la fine dei miei giorni», ripete a TeleMartì. «Lascio un paese prospero e felice. Continuano le persecuzioni ed io continuo a rispondere che m’assumo ogni responsabilità politica per le decisioni prese. Vorrei incontrare i familiari di chi viene considerato vittima per spiegare con amore ed onore perché non sento il bisogno di domandare perdono a nessuno». Legge ad alta voce questo biglietto davanti al cancello del giardino l’avvocato Hermogénes Pérez de Arce. Occhi umidi delle duecento persone arrivate per gli auguri del compleanno numero 89. L’avvocato aggiunge due parole: «Cara Eccellenza, mi permetta di dirle che siamo noi a chiederle perdono per l’ingratitudine dei cileni». Dalla veranda, in carrozzella, Pinochet risponde agitando la mano nell’ultimo saluto.

La sua scomparsa ripropone problemi da mesi in discussione. La presidente Bachelet torturata a villa Grimaldi non concede il funerale di stato, ultimo capriccio di un signor viziato dall’obbedienza strisciante dei sottoposti. Non seguirà la sua bara una sola divisa, nessuna fanfara che suoni l’amata Lili Marlen: solo i fantasmi della riserva in una cerimonia quasi familiare. Forse verrà sepolto fra gli alti ufficiali oppure «in una tomba qualsiasi» del cimitero centrale dove riposano Salvador Allende e Beatriz, figlia suicida a Cuba. Non sopportava il dolore per il padre perduto così.

* l’Unità, Pubblicato il: 11.12.06 Modificato il: 11.12.06 alle ore 9.58


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