Kausalya, la vedova dai capelli corti sfida l’India dei delitti d’onore
Amava un intoccabile, la sua famiglia l’ha ucciso. Ha vinto in tribunale: è un’eroina
di Marta Serafini (Corriere della Sera, 23.01.2018)
La storia di Shankar e Kausalya potrebbe tranquillamente essere uscita dalle pagine del primo romanzo di Arundhati Roy, «Il dio delle piccole Cose». Ma, come spesso accade quando si tratta del dolore più grande, quello generato dall’ingiustizia, la realtà è capace di superare la narrativa. Tutto ha inizio nel 2014.
Kausalya è figlia di un 38enne imprenditore della casta Thevar, predominante nella regione del Tamil Nadu. Quando lei comunica ai genitori la decisione di diventare una hostess la risposta è secca. «Non se ne parla. Dovresti indossare gonne troppo corte», le dicono. Dopo aver tentato invano di combinarle un matrimonio, mamma e papà costringono la ragazza a iscriversi al college per studiare informatica.
Come racconta la Bbc, Kausalya si annoia. Finché un giorno le si avvicina Shankar, anche lui studente di ingegneria. «Credo di essermi innamorato di te», le dice. Per qualche tempo lei cerca di respingerlo. Sa bene che avere una storia con un intoccabile è impensabile. Shankar è un Dalit, figlio di un contadino, che vive in una capanna in un villaggio della regione.
In India la divisione in caste è stata abolita dalla Costituzione nel 1950 ma la discriminazione nei confronti degli intoccabili è ancora radicata. Per oltre un anno, i due si scambiano messaggi su WhatsApp. Poi iniziano a incontrarsi sull’autobus. Non fanno niente, se non parlare dei loro sogni. Nel luglio 2015 il conducente li denuncia alla famiglia di lei. Risultato, Kausalya viene ritirata dal college e a Shankar viene intimato di tenersi alla larga.
Kausalya scappa di casa e il 12 luglio 2015 si sposa con Shankar. I due vanno alla polizia per chiedere protezione dato che gli attacchi nei confronti dei Dalit sono all’ordine del giorno nella regione del Tamil Nadu (solo nel 2016 sono stati 1.291). «Da oggi se ti dovesse succedere qualcosa non considerarci responsabili», dicono i genitori alla figlia. Nel marzo 2016 il padre assolda cinque sicari, per 50 mila rupie. Kausalya e Shan-kar devono morire. «Volevo mandare un messaggio al mondo», confesserà poi alla polizia. Così in una domenica di sole i due ragazzi vengono accoltellati sotto l’occhio di una telecamera a circuito chiuso di un negozio di Udumalpet. Shankar muore, a causa di 34 ferite. Kausalya si salva ma deve subire numerosi interventi.
«Sono stati i miei genitori». Kausalya trova subito la forza di denunciare mamma e papà e al processo testimonia contro di loro. Fino al verdetto, quando nel dicembre 2017 il giudice, con una sentenza esemplare contro i delitti d’onore, condanna a morte i cinque sicari e il padre. Placare il dolore è difficile, quando le consegnano il telefono di Shankar, Kausalya ritrova le chat degli inizi. «Non so cosa dire, se non che mi manchi». «Anche tu». Kausalya tenta il suicidio. Poi reagisce: si taglia i capelli corti, impara a suonare il tamburo «parai», simbolo dei Dalit, partecipa agli incontri organizzati dai gruppi che combattono contro le persecuzioni nei confronti degli intoccabili. È una battaglia che riguarda 200 milioni di persone in tutta l’India.
Kausalya non è più sola. Con i soldi del risarcimento ha costruito una casa per la famiglia di Shankar e aperto un centro per gli studenti poveri del villaggio. Da vittima si è trasformata in attivista. «L’amore è come l’acqua non lo puoi fermare», dice oggi agli incontri che organizza. E anche se l’ingiustizia rimane, il dolore è un po’ meno forte.