Inviare un messaggio

In risposta a:
Questione antropologica

IL PROGRAMMA DI KANT. DIFFERENZA SESSUALE E BISESSUALITA’ PSICHICA: UN NUOVO SOGGETTO, E LA NECESSITA’ DI "UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA".

sabato 16 dicembre 2006 di Federico La Sala
COME ALL’INTERNO, COSI’ ALL’ESTERNO: "VERE DUO IN CARNE UNA". NOTE SUL PROGRAMMA DI KANT
di Federico La Sala *
Kant elaborò esplicitamente tutto l’apparato di concetti, di principi, di argomentazioni della sua filosofia, per giustificare la validità della conoscenza nel caso di un soggetto attivo e recettivo insieme, cioè in vista di un punto di partenza precisamente dualistico, e non unitario (V. Mathieu, Introduzione all’Opus Postumum di Kant, Zanichelli, Bologna, 1963). (...)

In risposta a:

> IL PROGRAMMA DI KANT. --- "I sei lati del mondo. Linguaggio ed esperienza" di Giorgio R. Cardona. «Assenza, più acuta presenza» (di Corrado Bologna - Insula Europea).

sabato 7 gennaio 2023

ANTROPOLOGIA, LINGUISTICA, E ARCHEOLOGIA FILOSOFICA: "SÀPERE AUDE!" (KANT, 1784). RIPRENDERE IL FILO DELLA RISCOPERTA DEL CORPO: IL RICORDO DELLA LEZIONE DI GIORGIO CARDONA. Un contributo (straordinario) di Corrado Bologna alla conoscenza del suo percorso di ricerca:

      • Giorgio R. Cardona: «Assenza, più acuta presenza»

«Nessuno è indispensabile», diceva Giorgio Raimondo Cardona. Lo diceva spesso, con la saggezza socratica e la serena ironia che si moltiplicava nel bel viso coronato dai capelli ricci, occhi luccicanti e bocca sorridente fra barba e baffi color carota, da filosofo antico. Aveva ragione lui, come al solito: nessuno è indispensabile. Me ne rendo conto sempre più pensando che #oggi, 7 gennaio 2023, avrebbe compiuto 80 anni, e che invece partì per sempre a 45 anni, la feroce vigilia di ferragosto del 1988. [...]
-  Giorgio Cardona non era solo un grande linguista: era anzitutto un grande antropologo.[...]

Una tra le idee forti e originali più limpidamente approfondite nei due libri dai titoli parlanti e allegorici apparsi nel 1985, anno di grande fecondità per Giorgio (La foresta di piume. Manuale di etnoscienza; I sei lati del mondo. Linguaggio ed esperienza), è che tra il piano della formulazione linguistica di determinati saperi e quello della loro strutturazione conoscitiva non c’è coincidenza. Insomma, il linguaggio non “è” il pensiero, né il pensiero “sta dentro” il linguaggio. Componenti emozionali, conoscitive, immagini, suoni, percezioni sensoriali, intervengono a coordinare e formare la complessa procedura gnoseologica. Come il fonema rappresenta la cellula-base del linguaggio vocale, e il grafema della sua forma scritta, così, ipotizzava Giorgio, esisterà un noema, unità minima del pensiero, irriducibile alla mera componente linguistica.[...]
-  Ne I sei lati del mondo, domandandosi se sia il linguaggio che influisce sulle nostre visioni del mondo, o se invece sia la realtà a imprimere il suo segno sui nostri modi di esprimerci, Giorgio mise in luce il “modello corporeo” con cui l’uomo organizza lo spazio: non solo “alto” e “basso”, ma anche “destra” e “sinistra”, e “davanti” e “dietro”. Cesare Segre, in Notizie dalla crisi (1993), richiamandosi anche alle ricerche di Th. Luckmann e di Harald Weinrich sul «corpo umano come struttura fondamentale della condizione umana», salutava con piena adesione le pagine dei Sei lati del mondo sul nesso «fra l’orientamento del corpo nello spazio e le preposizioni» e sulla «specularità fra l’uomo e il mondo», dell’«antropomorfizzazione del mondo e delle cose». Giorgio, per aprire il suo capitolo, si era richiamato a Leonardo nel Codice Trivulziano: «Ogni omo sempre si trova nel mezzo del mondo e sotto il mezzo del suo emisperio e sopra il centro d’esso mondo»: la postura eretta dell’Homo sapiens era già l’Homo copernicanus che sfora con la testa oltre le nuvole, pronto a misurare anche l’immisurabile.
-  La finezza e la forza limpida dell’argomentazione di Giorgio Cardona muovendo da un luogo comune vi riconosceva un sottofondo, uno spazio disposto all’ermeneutica, nell’interstizio fra lingua e pensiero, e lì lavorava, scavava, scopriva filoni auriferi: «Il detto greco ‘di tutte le cose è misura l’uomo’ (pánton tôn prámmaton métron ho ánthropos) viene citato per solito per ricordarci il senso della relatività posseduto dai Greci. Non c’è dubbio che l’interpretazione che vede in questo detto una tranquilla e coraggiosa professione di fede laica può essere giusta. Ma forse raramente o mai si pensa che il detto vada preso innanzitutto alla lettera. L’uomo è effettivamente la misura di tutte le cose, nel senso corrente in cui oggi si dice “a misura d’uomo”, e questa logica sottostante traspare da innumerevoli indizi; le misure delle cose sono corporee (pêkhus ‘cubito’), il linguaggio è visto come un corpo articolato e perfino il tempo è analizzato a volte su un riferimento corporeo». Questo significava, per lui, abitare nel linguaggio. (Insula Europea, 06 GENNAIO 2023 ).

***

Giorgio Raimondo Cardona, I sei lati del mondo. Linguaggio ed esperienza, Roma-Bari, Laterza, 1985

Dalle pp. 1-4 (Introduzione), 7-17 (Modelli e conoscenza):

I sei lati del mondo è una espressione persiana e poi turca usata per cogliere in un colpo solo l’insieme di tutte le localizzazioni spaziali raggiungibili. Molte parole sarebbero necessarie per spiegare quello che è invece del tutto intuitivo: l’orientamento umano individua quattro quadranti dello spazio; e questa prima suddivisione, che già potrebbe bastare a esaurire lo spazio tridimensionale, è completata dall’opposizione alto-basso.

Queste sei direzioni, i sei lati del mondo, sono riassunte in un modello tangibile, la tenda dei nomadi, che le sbarra ognuna con un piano - le quattro pareti, il tetto, il piano del suolo - creando quindi per l’uomo un riparo delimitato e circoscritto rispetto alla dimensione dello spazio. L’abitazione delimita, raccoglie, e proprio perché essa è la proiezione, il guscio, il carapace che l’animale uomo secerne per coprirsi e per ripararsi dalla centrifugità dello spazio, essa riceve nelle sue parti la proiezione del corpo che l’ha generata.

Questo è un modello percettivo e conoscitivo; per poter diventare efficiente e usabile esso ha però bisogno di sposarsi a un corrsipondente modello segnico, che permetta di comunicarlo. Una cultura fa uso di molti di questi modelli, psicologici prima che linguistici, ed è convinzione difendibile che la lingua e l’uso linguistico ce ne mostrino molte delle linee di forza, o almeno dei punti nodali.

Non troveremo nella lingua un fedele ricalco di tutto ciò che la comunità pensa; non tutto deve essere esplicitato perché molto di ciò che vive nella comunità vi vive allo stato latente. Non sono forse innumerevoli le "verità" culturali che tutti conosciamo e che quindi troveremmo sciocco o bizzarro enunciare con parole? Che le cose cadano dall’alto, che l’acqua disseti, che il fuoco riscaldi, dobbiamo forse dircelo? Tanto peggio per l’osservatore esterno che nei suoi nastri magnetici, ascoltati e riascoltati, non troverà traccia di quanto tutti invece sanno e danno per certo. [...]

Eppure molte tracce di quel che pensiamo e comunemente sappiamo filtrano in quel che diciamo, si depositano, si sedimentano in momenti e occasioni diverse. Per noi che le usiamo le parole sono ciottoli tutti uguali, e tali devono sembrarci; ma se ci soffermiamo ad osservarli, ciascuno ci mostra la sua storia, la sua composizione, le sostanze che vi sono dentro fossilizzate. [...]

Questo è un libro sulla visione linguistica del mondo: la tesi di fondo prevede innanzitutto che si possa parlare di una tale visione, che qualcosa del genere si dia; e, in secondo luogo, che gli elementi attraverso cui essa si costituisce siano attinti da un magazzino universale e rispondano ovunque, in misura variabile, ad analoghe restrizioni biologiche e culturali.

Proprio nella perpetua, mutevole dialettica tra la variazione e la diversità dei modi culturali e le costrizioni che ad essi oppone l’immutabile condizione umana sta uno dei principali motivi di interesse e di fascino per l’osservatore, antropologo o linguista. [...]

Capitolo primo. Modelli e conoscenza

1.1. Un ordine necessario

A tutto ciò che conosciamo, percepiamo, ideiamo, dobbiamo necessariamente dare un ordine. La nostra mente deve far posto a nozioni delle più varie provenienze: informazioni sul mondo biologico, diagrammi delle relazioni sociali, dati dell’esperienza personale vissuta; è un patrimonio di molti milioni di dati quello che si accumula nella nostra memoria nel corso di una vita. [...]

Ma questo materiale deve, per poter essere utile, venire in qualche modo inventariato, catalogato; e data la sua eterogeneità (nozioni quadro con valore sistematico e operativo coesistono con fotogrammi isolati, con brandelli di eventi) non potrà essere ordinato in modo univoco, senza residui; ci sarà invece un continuo processo di riordinamento: i dati volta per volta non più utili vengono cancellati completamente o messi - per così dire - in un cassetto, riposti in scaffali fuori mano; altri vengono raggruppati sotto una stessa intestazione, ridotti a fattore comune; vengono stabiliti sempre nuovi collegamenti, rapporti causali, regole predittive. Una notevole elasticità del sistema permette che gli incastri, le cerniere, i passaggi non debbano essere di un’assoluta precisione, ma consentano un certo gioco di adattamento.

L’approssimazione, l’indeterminatezza, il flou dei contorni - di per sé negativi e indesiderabili in un sistema formale - sono la condizione essenziale per permetterci di ricordare, di associare un fatto all’altro, di riconoscere una forma, una configurazione, anche appena intravista; con altrettanta se non maggiore indeterminatezza ci si offre il mondo degli stimoli e delle percezioni esterne.

1.2. La codificazione linguistica

In tutti questi processi mentali, vitali per la nostra stessa sopravvivenza come individui e come gruppo sociale, la lingua ha un posto eminente. Gran parte di queste informazioni può infatti - anche se non necessariamente - essere codificata nelle forme che ci offre la lingua. [...]

1.3. Altri sistemi semiotici

[...] molto spesso quello a cui facciamo riferimento non è la lingua in senso proprio bensì un sistema semiotico in generale, cioè una costruzione funzionale di cui la lingua non è che uno dei tipi possibili [...].

[...] La lingua ha come materia la voce - o, nella sua versione scritta, la carta, l’inchiostro o simili - ma altri sistemi si servono di stimoli visivi (forma, colori), di gesti, di suoni. [...]

Non c’è dubbio che le relazioni interpersonali all’interno di una comunità costituiscano un sistema: ci sono ruoli, rapporti privilegiati, regole di scambio, di reciprocazione, di evitazione e così via; ma tali sistemi, interiorizzati dai membri della comunità, devono, per trovare espressione percepibile, essere codificati in altri sistemi ancora, dalla forma e colore dei vestiti alle scenografie di una festa.

Si prenda la rappresentazione visiva: anche all’interno di una stessa scelta di modalità troviamo gradi diversi di semiologizzazione da cultura a cultura; la tradizione occidentale ha notevolmente privilegiato - dal livello popolare a quello più colto - il ricorso a segni con referente concreto, riconoscibile (figure, oggetti), altre tradizioni hanno dato invece molta importanza a forme geometriche, rapporti di spazi e linee, colori;

una pittura come quella tibetana, fortemente semiologica e decifrabile solo in riferimento all’universo significativo delle credenze e conoscenze religiose e cosmologiche pur gremita com’è di figure riconoscibili (demoni, divinità, oggetti), fa largo uso di elementi astratti, quali il colore usato in maniera simbolica e non naturalistica, la dimensione e la posizione relativa delle figure nello spazio, le forme geometriche (i vari mandala). E siamo già, si badi, di fronte a una forma artistica che si potrebbe a buon diritto definire classica, cioè al massimo dell’elaborazione colta e consapevole. Ciò significa che la forma espressiva scelta da queste altre culture non è immediatamente traducibile nelle forme della lingua.

Le arti figurative occidentali sono invece fortemente linguistiche; tra le forme espressive verbali e quelle figurative esiste per noi da sempre uno stretto parallelismo; l’ideologia dell’"ut pictura poësis" da un lato; all’altro la pictura dà corpo a personaggi e temi sanciti dalla letteratura.

I vari elementi che si compongono possono esser messi in corrispondenza con segni della lingua. Naturalmente anche al colore o ad alre forme astratte si può dare un nome, ma questo nominare è meno immediatamente a portata di mano.

L’espressione "ut pictura poësis" è di Orazio; ma nella tradizione il primo a paragonare poesia e pittura fu Simonide di Ceo. "Simonide - scrive Plutarco nel de gloria Atheniensium 3 - definiva la pittura una poesia silenziosa e la poesia una pittura parlante; giacché le azioni che i pittori dipingono nell’atto del loro compiersi, le parole le descrivono dopo il loro esser state compiute".

Sia questa osservazione che l’invenzione della mnemotecnica si iscrivono in una netta intelligenza del posto centrale che ha la visione fra le facoltà umane, intelligenza che Simonide [V sec. a.C.] sembra essere stato uno dei primi a raggiungere, almeno esplicitamente, in Occidente.


Questo forum è moderato a priori: il tuo contributo apparirà solo dopo essere stato approvato da un amministratore del sito.

Titolo:

Testo del messaggio:
(Per creare dei paragrafi separati, lascia semplicemente delle linee vuote)

Link ipertestuale (opzionale)
(Se il tuo messaggio si riferisce ad un articolo pubblicato sul Web o ad una pagina contenente maggiori informazioni, indica di seguito il titolo della pagina ed il suo indirizzo URL.)
Titolo:

URL:

Chi sei? (opzionale)
Nome (o pseudonimo):

Indirizzo email: