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Questione antropologica

IL PROGRAMMA DI KANT. DIFFERENZA SESSUALE E BISESSUALITA’ PSICHICA: UN NUOVO SOGGETTO, E LA NECESSITA’ DI "UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA".

sabato 16 dicembre 2006 di Federico La Sala
COME ALL’INTERNO, COSI’ ALL’ESTERNO: "VERE DUO IN CARNE UNA". NOTE SUL PROGRAMMA DI KANT
di Federico La Sala *
Kant elaborò esplicitamente tutto l’apparato di concetti, di principi, di argomentazioni della sua filosofia, per giustificare la validità della conoscenza nel caso di un soggetto attivo e recettivo insieme, cioè in vista di un punto di partenza precisamente dualistico, e non unitario (V. Mathieu, Introduzione all’Opus Postumum di Kant, Zanichelli, Bologna, 1963). (...)

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> IL PROGRAMMA DI KANT. ---- Perché la coscienza non è solo interiore. Due saggi di Perconti e Desideri riflettono su esperienze soggettive ed estetiche (di Maurizio Ferraris).

martedì 4 ottobre 2011

Due saggi di Perconti e Desideri riflettono su esperienze soggettive ed estetiche

Perché la coscienza non è solo interiore

Già nel secolo scorso filosofi e psicologi hanno sostenuto che per individuare la natura di questa facoltà occorre guardare soprattutto alla realtà esterna

di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 04.10.2011)

In inglese, ci racconta Schopenhauer, era solito dire «non sono abbastanza ricco da permettermi una coscienza», questa entità nobile e interiore. Ma è davvero così? Se leggiamo Coscienza di Pietro Perconti (il Mulino, pagg. 216, euro 13,50) vediamo quanto sia potentemente determinata da due esteriorità.

La prima è il corpo. Cosa ci succederebbe se di colpo ci trovassimo con una faccia diversa? Impressionante. E questo sottilmente verrebbe a toccare la nostra coscienza. Per la coscienza è essenziale quello che gli studiosi contemporanei chiamano "embodiment", "incorporazione", ma se traducessimo, come è anche del tutto legittimo, con "incarnazione", ci renderemmo conto di quanto antica sia questa intuizione. Perciò nel secolo scorso filosofi e psicologi comportamentisti hanno risolutamente sostenuto che non si tratta di scavare nell’interno, ma di guardare all’esterno, sino a dare argomenti per una famosa barzelletta da professori. Quella dei due comportamentisti che fanno l’amore e poi lui dice a lei: «A te è piaciuto moltissimo. E a me?».

Sono esagerazioni, ma rappresentarsi la coscienza come qualcosa di puramente interiore è insufficiente, per quanto possa apparirci naturale. Perché ci appare altrettanto naturale cercare la coscienza nei volti degli altri, o persino (è un tema a cui Perconti dedica una lunga analisi), nello specchio, un po’ come la regina di Biancaneve. Quando - succede anche questo - ci guardiamo nello specchio dell’ascensore per cercare di capire il nostro umore, non ci comportiamo molto diversamente dai comportamentisti della barzelletta.

Quanto poco sia vero che la nostra coscienza si riduca all’interiorità lo si capisce ancor meglio se si guarda all’esperienza estetica, d’accordo con uno dei fili conduttori di un altro libro uscito di recente, La percezione riflessa (Raffaello Cortina, pagg. 230, euro 23) di Fabrizio Desideri, che getta un ponte tra estetica e filosofia della mente. Che cosa avviene quando troviamo bella una cosa o un paesaggio? Sarebbe sbagliato credere che la bellezza la mettiamo tutta noi, con la nostra coscienza o sensibilità, sarebbe troppo facile. Sicuramente l’apprezzamento viene da noi, non esiste bellezza degli oggetti se non per soggetti che li riconoscono. Però, al tempo stesso, fa parte dell’apprezzamento l’assumere che il bello, una qualità emotiva molto elevata, ha luogo lì fuori, nell’oggetto. Ora, come sottolinea Desideri, qui si crea una strana inversione di ruoli. L’oggetto diventa un quasi-soggetto, sembra rivolgersi a noi come se fosse una persona (Kant notava che in certi giorni sembra che il mondo ci rivolga un sorriso, osservazione giustissima anche se in certi altri giorni sembra invece che ce l’abbia con noi). Il soggetto, invece, diventa un quasi-oggetto, giacché è passivo rispetto all’oggetto, che gli si impone come bello, o brutto, indipendentemente dalla sua volontà.

Con esperienze di questo genere - che non si riducono al bello, si pensi alla fitta di quando si vede la multa sotto il tergicristallo - entriamo in una seconda esteriorità rispetto alla pretesa interiorità della nostra coscienza, ossia nel mondo, naturale e sociale, ciò che gli studiosi contemporanei chiamano "embedment", e che Heidegger, con un altro gergo, chiamava "Dasein", "essere nel mondo". La nostra interiorità si nutre costantemente dell’esterno, e non potrebbe esistere senza di esso. Così non l’interiorità, ma la materia e la memoria, quello che ci imparenta agli archivi e ai computer, è la condizione imprescindibile per la coscienza.

Banalmente, proprio come ci sono delle operazioni intellettuali che sono inattuabili senza supporti esterni, per esempio calcoli complicati che richiedono carta e penna, o pallottolieri, cosi anche funzioni elevatissime come la responsabilità e la decisione morale non potrebbero aver luogo senza memoria. Come si può essere responsabili senza avere a che fare con le vestigia delle nostre azioni? E il fatto che nella nostra vita morale la rimozione (ossia una specie di oblio guidato e artificiale) giochi un ruolo così centrale ci spiega che il fondo della nostra anima è fatto di qualcosa che sta fuori, nel mondo, tanto quanto sta dentro, nella mente, ossia di memoria.


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