Anniversari
E Viktor Frankl inventò la logoterapia, scienza dello sguardo interiore
A dieci anni dalla morte,è viva l’opera dello psichiatra che credeva nell’«apertura all’altro» come fonte di felicità
di Eugenio Fizzotti (Avvenire, 02.09.2007)
In tutti i suoi testi, molti dei quali tradotti e pubblicati in lingua italiana, seguendo la linea dei pensatori classici, lo psichiatra viennese Viktor E. Frankl, padre universalmente riconosciuto della terza scuola viennese di psicoterapia, nota come «logoterapia e analisi esistenziale», analizzando con delicatezza e decisione la struttura dell’essere umano, afferma che essa è «disegnata» e concepita, nella sua dimensione fisico-biologica e in quella psico-razionale, per aprirsi al mondo circostante e per mettersi in relazione con gli altri. Un tale atteggiamento di apertura agli altri «tu» umani non ha bisogno di alcuna artificiosità e forzatura, dal momento che risponde alle esigenze peculiari e intime della persona.
Frankl, di cui oggi ricorre il decimo anniversario della morte (Vienna, 2 settembre 1997), era cosciente, inoltre, che nel secolo XX molti pensatori e psicologi avevano sottolineato quest’aspetto essenziale della nostra natura, proiettata al di là di se stessa, «aperta al mondo» e alle cose. Ecco perché nella sua opera principale Logoterapia e analisi esistenziale (Morcelliana, Brescia 2005) affermò con convinzione che «essere uomo significa andare al di là di se stessi. L’essenza dell’esistenza umana si trova nel proprio autotrascendimento. Essere-uomo vuol dire essere sempre rivolto verso qualcosa o verso qualcuno, offrirsi e dedicarsi pienamente a un lavoro, a una persona amata, a un amico cui si vuol bene, a Dio che si vuol servire». In un’epoca come la nostra, che immerge nello stress e nell’iperattività gran parte della società occidentale, sono molte le persone che, gettate nel rovinoso fragore delle loro molteplici attività, cercano la propria felicità e la propria autorealizzazione nella conferma dei successi professionali, nella realizzazione di piaceri sensibili o nell’accettazione sociale di una troppo curata ed edulcorata immagine esterna. Frankl, invertendo quest’ordine di valori, ha sempre sostenuto che l’autorealizzazione che sogniamo e la pienezza esistenziale dell’essere umano, come presupposti della felicità, non si ottengono mettendo uno specchio che faccia da muro di fronte al mondo esterno per restare nella nostra narcisistica immagine, ma si raggiungono nella misura in cui ci occupiamo degli altri con generosità e creatività.
Il principio antropologico fondamentale dell’essere umano è, in tale prospettiva, il naturale porsi oltre se stesso, così come l’apertura proiettiva dei propri sentimenti e dei propri atti volitivi e razionali, quando non si chiudono nell’individualistica soggettività, ma si espandono verso la realtà esterna, contribuiscono, nella misura in cui si trascende se stessi e si compiono i propri doveri, allo sviluppo congiunto e armonico delle potenzialità umane e, in pratica, consentono di diventare più umani. Partendo da tale prospettiva antropologica, Frankl ricerca da diverse angolazioni la tendenza o capacità naturale di andare oltre se stessi, di trascendersi verso coloro che convivono nella diversità ambientale e sociale degli attuali spazi naturali. In tal modo egli attua il vecchio principio secondo cui «l’uomo è per natura un essere sociale», principio che il grande filosofo greco Aristotele poneva a fondamento delle peculiari caratteristiche del linguaggio umano, affermando che è semanticamente costruito per metterci in comunicazione e in relazione con i nostri simili.
Un altro dei punti fermi della visione frankliana è quello di mettere in guardia dinanzi al pericolo di chiuderci esclusivamente nell’autoriflessione dei nostri desideri e delle nostre soddisfazioni materiali, dei nostri successi e dei nostri insuccessi, dei nostri beni presenti e delle nostre sicurezze future, poiché tale volontaria chiusura suppone un atteggiamento e una disposizione che forzano la naturale apertura al mondo esterno e alle persone che ci circondano. Per questo, egli considera che imprigionare l’io nelle strette pareti del nostro mondo interiore, impedendogli di espandersi senza falsi timori «verso l’esterno», è un rischio che facilita la crescita di germi patologici che, avvolgendo ossessivamente le nostre riflessioni, possono portare a disturbi nevrotici ed essere motivo di infelicità. Una personalità sana e ben formata psicologicamente è, piuttosto, quella che sa aprire le porte e le finestre della sua coscienza verso la luce e il chiarore del mondo esterno, dirigendosi verso la gente che la circonda e interessandosi ad essa.