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Poesia

UN EVENTO. Le ELEGIE DUINESI di Rainer Maria Rilke nella traduzione di Michele Ranchetti e Jutta Leskien - a c. di Federico La Sala

sabato 30 dicembre 2006 di Federico La Sala
Elegie di Rilke, percorsi simbolici
L’ultima traduzione italiana restituisce l’opera poetica nella sua integrità lirico-filosofica senza aggiunte e oscurità formali
di Fulvio Panzeri (Avvenire, 30.12.2006)
Ritorna il capolavoro di Rainer Maria Rilke, le Elegie Duinesi, che il poeta tedesco iniziò a scrivere nel 1912, nel castello di Duino, vicino a Trieste. È un uomo che sa già cosa sia la gloria poetica e che nel corso della sua avventura umana ha conosciuto il vuoto del nulla, (...)

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> UN EVENTO. Le ELEGIE DUINESI ---- L’angoscia nascosta di Rilke per le donne (di Walter Siti).

domenica 2 novembre 2014

La poesia del mondo

L’angoscia nascosta di Rilke per le donne

-  Un testo “scritto senza impegno” per dire un semplice e gentile “no grazie”
-  Ma anche nelle cose minori il grande poeta dimostrava il suo talento
-  e paragonando la nobile rinuncia alla purezza dell’acqua fresca metteva in versi traumi e misoginia

di Walter Siti *

L’AUTORE Rainer Maria Rilke (Praga 1875 - Montreux 1926) è stato uno dei più grandi scrittori e poeti austriaci, autore di numerosi drammi, poesie e opere in prosa in lingua tedesca Online su Repubblica.it lo speciale dedicato alla serie “La poesia del mondo” di Walter Siti

MOLTA filosofia si è fatta intorno alle poesie di Rilke, dai riferimenti alla fenomenologia di Husserl alle pagine che gli dedicò Heidegger; e certo la sua scrittura vi si presta, coi riferimenti a Orfeo, il privilegio dell’invisibile sul visibile e dell’astratto sul concreto, la distanza insuperabile e continuamente evocata tra esistere ed essere. I suoi testi (soprattutto le Elegie Duinesi ) reggono le interpretazioni, sia chiaro, ma sottopelle corre il sospetto della sopravvalutazione - di voler cercare coerenza di pensiero dove non ci sia che estetismo ed esagerata ambizione. C’è di che trovarlo antipatico, questo narciso cosmopolita che non ha mai seriamente lavorato in vita sua: lamentoso corrispondente di nobildonne e di artiste, coccolato in castelli non suoi.

Peccato che sia un poeta vero e che anche nelle cose minori sappia dimostrarlo vittoriosamente. Per esempio in questo madrigaletto scritto senza impegno per una delle tante ragazze che si mettevano in contatto con lui e che lui rigorosamente teneva a distanza di sicurezza; è cinquantenne ormai, separato dalla moglie, tormentato da malattie apparentemente psicosomatiche che si trasformeranno dopo solo due anni in una leucemia fulminante e mortale.

È un no-grazie gentile, un rifiuto in forma di paragone che si traveste da diagnosi indiscutibile: io sono fatto in questo modo e quindi... L’accadimento è minimo: una passeggiata intorno al palazzotto svizzero dove viveva, lungo una strada consueta (il neologismo composto “sonngewohnten” può voler dire sia “abitata dal sole” che “abitualmente al sole”).

Il contrasto piacevole ai sensi è quello tra la strada assolata e il freddo dell’acqua raccolta nell’abbeveratoio; è l’inizio d’estate, il silenzio è rotto solo dal chioccolare piano dell’acqua nel tronco cavo - acqua limpidissima che dà voglia di bere. Lui sazia la sua sete ma non, come farebbero tanti, avvicinando le labbra: solo immergendo i polsi nello specchio della vasca.

Con uno scatto di sensibilità trova che sarebbe smaccato, volgare, bere con la bocca - una troppo esplicita ammissione di desiderio. Soddisfare così direttamente un bisogno porterebbe a non capire tutti i sottintesi di quell’acqua: che è materialmente limpida ma anche serena, allegra (“heiter”); e la sua origine è sì quella geografica (gli acquedotti, i monti) ma anche meteorologica (il circuito perpetuo dal cielo alla terra e viceversa) e intellettuale (l’eterno che presiede all’effimero). Solo la rinuncia e l’attesa acquisiscono alla coscienza un’acqua più pura di quella fisica, un’acqua quintessenziata e spirituale.

Dunque, dice alla donna, se tu venissi non ti berrei tutta, mi basterebbe sfiorarti. Lo dice più per rassicurarsi che per rassicurarla: è una conclusione fintamente ragionativa ma liberatoria (anche il ritmo lo sa, dalla prima strofa franta e piena di enjambements audaci si passa a una quartina prima esitante poi cantabile e simmetrica).

«Compresi», scrive Rilke in un appunto del 1910, «che sarei sempre stato in torto se mi fossi aspettato dalla vita qualcosa di più che di essere sfiorato da lei, lievemente, sul braccio»; e aggiunge il ricordo delle stele sepolcrali dell’antico cimitero di Atene - quei gesti trattenuti tra vivi e morti, gli addii tra cari che «si uniscono piano nel cuore indimostrabile di uno specchio», il «salire di una mano alla spalla senza alcuna volontà di possesso».

L’allusione a quelle “mani che poggiando non premono” tornerà nella Seconda Duinese, dove si parla degli amanti che avvicinano le bocche come per bersi l’un l’altro (“bevanda a bevanda”) ma poi non consumano il gesto; gli amanti in cui si infiltra qualcosa dell’essenza angelica. La Seconda Duinese è l’elegia degli angeli: angeli che diventano “specchi” perché riattingono nel proprio volto la bellezza piovuta da Dio, proprio come fa l’acqua nel perpetuo giro dell’umidità.

In un appunto del 1913 Rilke aveva scritto «l’angelo è ciò che l’acqua è sulla terra e nell’atmosfera: torrente, rugiada, abbeveratoio, fontana d’esistenza dell’anima ». Sotto il minuscolo episodio di quel giorno di giugno si stringe un nodo di significati: la donna è acqua e angelo, rinunciare a possederla vuol dire accedere a una conoscenza più pura e a una più pura origine - sotto l’acceso desiderio erotico dei seni, rintracciare l’amore materno (“stillen” è “saziare” ma anche “allattare”).

C’è molto Unbewusste, inconscio, dietro quella chiara coscienza; nell’esaltazione rilkiana della donna cova un’oscura misoginia - una pittrice polacca da lui trascurata l’aveva capito scrivendogli “accetto tutto da voi, anche la vostra paura”. Paura pura e semplice, dietro tutte le razionalizzazioni; e rispondendo alla pittrice Rilke lo conferma con un’immagine terribile: «L’amore ha avanzato spesso pretese nei miei confronti, come se un frutto ammirato dovesse essere schiacciato dentro l’occhio che lo guardava rapito, come se fosse una bocca». Affermando che Rilke è un poeta vero, affermavo che l’autenticità dei suoi traumi trova nei versi la strada più naturale per rivelarsi, e che soltanto il ritmo delle parole concilia l’inconciliabile (vedi qui il parallelismo tra “Anruhn meiner Hände” e “Andrang deiner Brüste”).

* la Repubblica, 02.11.2014 (ripresa parziale)


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