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Poesia

UN EVENTO. Le ELEGIE DUINESI di Rainer Maria Rilke nella traduzione di Michele Ranchetti e Jutta Leskien - a c. di Federico La Sala

sabato 30 dicembre 2006 di Federico La Sala
Elegie di Rilke, percorsi simbolici
L’ultima traduzione italiana restituisce l’opera poetica nella sua integrità lirico-filosofica senza aggiunte e oscurità formali
di Fulvio Panzeri (Avvenire, 30.12.2006)
Ritorna il capolavoro di Rainer Maria Rilke, le Elegie Duinesi, che il poeta tedesco iniziò a scrivere nel 1912, nel castello di Duino, vicino a Trieste. È un uomo che sa già cosa sia la gloria poetica e che nel corso della sua avventura umana ha conosciuto il vuoto del nulla, (...)

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> UN EVENTO. Le ELEGIE DUINESI ---- Chi è dunque l’uomo, secondo Rilke? (di Paola Capriolo - Rilke, cittadino del doppio regno)

mercoledì 29 febbraio 2012

Rilke, cittadino del doppio regno

Una totalità che abbraccia la vita e la morte Il destino dell’uomo: un continuo prender congedo

di Paola Capriolo (Corriere della Sera, 28.02.2012)

In un celebre saggio, Martin Heidegger annovera Rilke tra quegli autori che nel «tempo della povertà», in un tempo cioè che è ancora il nostro, «debbono espressamente poetare l’essenza stessa della poesia»; definizione, a prima vista, tutt’altro che accattivante. Quando leggiamo un volume di versi, ci aspettiamo di trovarvi espresse e trasfigurate le esperienze fondamentali di ogni essere umano, l’amore, il lutto, l’emozione di fronte a un paesaggio... mentre l’«essenza della poesia» ci sembra un tema astratto e quasi specialistico, che riguarda uno sparuto pubblico di addetti ai lavori. Non fosse che per Rilke, erede della tradizione romantica e di un pensiero filosofico che, con Nietzsche, eleva l’arte a metafora centrale nella comprensione della realtà, questa essenza coincide con la natura più profonda dell’uomo.

Chi è dunque l’uomo, secondo Rilke? La risposta è: la più fuggevole, la più effimera tra tutte le creature. Ciò che è nostro, ciò che noi siamo, ad ogni istante svapora da noi «come rugiada dalla tenera erba,/ ... come il calore da una calda vivanda»; passiamo sulle cose con la rapidità dell’aria quando si apre la finestra per ventilare una stanza. A prima vista, sembra un po’ eccessivo: è vero che non possediamo la salda durata delle pietre o persino degli alberi, ma i moscerini ad esempio vivono molto meno di noi e non imprimono certo nel mondo una traccia più persistente.

Come può dunque Rilke definirci «i più fuggevoli»? Perché, ci spiega nell’Ottava elegia, diversamente dai moscerini noi viviamo «in un continuo prender congedo», siamo sempre nell’atteggiamento di chi parte e «... sull’ultima / collina che gli mostra per una volta ancora / tutta la sua valle, s’arresta, si volge indietro, indugia -». In altre parole, perché diversamente dai moscerini noi conosciamo la morte. La vediamo in anticipo, fissa davanti a noi come la linea che chiude il nostro orizzonte, ed è appunto questa chiusura a costituire il «mondo», la rigida, dolorosa forma in cui esistiamo. Così, credendo di guardare avanti, in realtà guardiamo costantemente indietro, con quello sguardo «rivoltato» che si posa sulle cose come un addio: credendo di guardar fuori a perdita d’occhio, in realtà vediamo soltanto le sbarre della gabbia che noi stessi ci siamo costruiti, anzi, che noi stessi siamo...

Eppure la poesia è resa possibile proprio da questo sguardo «rivoltato», rammemorante, che muovendo dall’orizzonte della morte trasforma le cose in ricordi, ossia in pura interiorità. Quella stessa potenza che ci ingabbiava costringendoci a rinchiuderci nelle anguste forme del mondo può diventare una potenza liberatrice quando la morte viene per così dire metabolizzata, accolta, fatta propria, anziché porsi eternamente davanti a noi come qualcosa di estraneo che ci sbarra la strada. Se l’animale, che è di casa nell’aperto, sente il proprio essere come infinito e «dove noi vediamo l’avvenire, là vede il tutto / e sé nel tutto, risanato per sempre», anche il morto, o chi accoglie la morte, disimpara a dare alle cose «il senso di umano futuro», impara ad abbandonare le rigide distinzioni proprie dei vivi per assumere ogni cosa in uno spazio di libertà che è, insieme, memoria e trasfigurazione, la segreta, paradisiaca vastità che l’anima possedeva in sé a propria insaputa.

Sorge così quel «doppio regno», alla cui celebrazione sono dedicati i Sonetti a Orfeo: una totalità originaria che abbraccia la vita e la morte senza contrapposizioni e cesure, quasi senza distinzione: perché, come afferma la Prima elegia, noi compiamo tutti l’errore di distinguerle troppo nettamente, mentre «gli angeli (si dice) di sovente non sanno / se vanno tra vivi o tra morti». Il doppio regno è quel regno della metamorfosi dove le forme perdono la loro rigidezza per trapassare l’una nell’altra attraverso modulazioni finissime e quasi impercettibili: come nella splendida composizione per archi di Richard Strauss intitolata appunto Metamorfosi, con la stessa, duttile fluidità; è quel regno, scrive Rilke, «la cui profondità e influsso noi, ovunque indelimitati, dividiamo con i morti e con coloro che verranno».

Ma per essere «indelimitati», cioè cittadini consapevoli del doppio regno, bisogna in primo luogo «tentare un rapporto con la morte del tutto libero dal rimprovero», cioè imparare a concepirla senza l’aspetto della negazione. Questo arduo, radicale superamento del «non» (quindi della separatezza, del «mondo», della forma come chiusura) è ciò cui i Sonetti si riferiscono con la parola «lode»: persino la lamentazione può dimorare davvero solo «nello spazio della lode», come la ninfa in una sorgente; e d’altra parte «solo colui che anche tra ombre / levò la lira, / può con cuore presago cantare / la lode infinita».

Noi, i più fuggevoli, siamo quelli capaci di lodare. Di lodare che cosa? Non l’eterno, non le alte e terribili schiere degli angeli, ma precisamente quella sfera della caducità cui apparteniamo e che ci è stata affidata. Lodare le cose che ci circondano e che, come noi, «del morire vivono»; quelle cose fuggevoli che ci credono capaci di salvarle, «noi, i più fuggevoli», e «vogliono che le trasformiamo del tutto, nel cuore invisibile, / in noi - all’infinito! Chiunque infine noi siamo».

Leggendo questi versi della Nona elegia, che rappresentano il culmine del ciclo duinese e forse dell’intera opera di Rilke, comprendiamo davvero come il «poetare l’essenza della poesia» possa essere tutt’altro che un esercizio elitario. Il vero compito dell’uomo, la «norma della sua esistenza», è proprio questa trasposizione delle cose visibili nel «cuore invisibile» che si fonda sulla memoria e nella poesia trova la sua attuazione più piena: una trasposizione che, da supremo compimento cui tutte le cose aspirano, nel nichilistico «tempo della povertà», quando la consistenza del mondo sembra sempre più corrosa da una tensione cieca e «senza figura», diviene addirittura la loro unica possibilità di sopravvivenza, la «grande arnia d’oro» in grado di custodirne il senso minacciato.


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