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PIANETA TERRA. Etero-topie...

"Occidente" e "Oriente". «Chi è più credibile», si chiedeva Pascal, «Mosè o la Cina»? François Jullien e Jean François Billeter: dibattito in corso - a cura di pfls

lunedì 8 gennaio 2007 di Maria Paola Falchinelli
L’alterità cinese, a carte scoperte
In «Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente», François Jullien ribadisce ancora una volta che il grande paese asiatico è l’unico altrove possibile per il «noi» europeo. Ma, ribatte il sinologo Jean-François Billeter, questo è un mito che può trovare legittimità solo in un contesto filosofico
di Marco Dotti (il manifesto, 06.01.2007)
A dispetto delle critiche, talvolta molto dure, che di continuo gli vengono mosse, anche nel suo ultimo libro Pensare (...)

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> "Occidente" e "Oriente". «Chi è più credibile», si chiedeva Pascal, «Mosè o la Cina»? --- François Jullien, pensare il vivere. Contraddizione e singolare (di Maurizio Porro).

lunedì 24 febbraio 2020

François Jullien, pensare il vivere
-  Contraddizione e singolare

di Mario Porro (Doppiozero, 07.10.2019)

Nell’ambito del “Progetto Casa dei Saperi - Nuove Utopie”, la Fondazione Adolfo Pini di Milano ha promosso un ciclo di incontri in cui, grazie ad un team curatoriale under 35, potessero confrontarsi giovani provenienti da differenti ambiti professionali. Sul tema ispiratore, l’esigenza di ripensare nuove forme del vivere insieme, si sono soffermati, fra gli altri, il filosofo Federico Campagna e lo psicoanalista franco-argentino Miguel Benasayag, noto per L’epoca delle passioni tristi. Sabato 21 settembre è toccato al filosofo e sinologo François Jullien tenere un seminario dedicato a L’intimità come eutopia: sapere essere nell’incontro. Gli ultimi scritti di Jullien, Sull’intimità. Lontano dal frastuono dell’amore (Raffaello Cortina 2014), Accanto a lei. Presenza opaca, presenza intima (Mimesi, 2016), pongono a tema la minaccia che grava sulla relazione di coppia, la presenza dell’altro che si traduce in opacità e pienezza abitudinaria. Il ricchissimo e sempre innovativo cantiere filosofico di Jullien torna a interrogare questioni che la filosofia ha in genere eluso: il privilegio attribuito a categorie di pensiero connesse alla logica dell’essere e dell’identità le ha impedito di rivolgersi a quanto rimane ambiguo, alle situazioni incerte che si pongono “tra”, in cui convivono caratteri contraddittori. La filosofia ha pensato la vita, eretta a sostanza, ma non il vivere come processo, l’esistenza come continuo rinnovarsi, quell’ex-sistere che non coincide mai con se stesso, perché solo la de-coincidenza lo mantiene in sviluppo: questione al cuore del suo libro più recente, Il gioco dell’esistenza (Feltrinelli, 2019).

Al termine del seminario, François Jullien con l’abituale cortesia si è reso disponibile a rispondere ad alcune domande.

Lei aveva promesso fin dai suoi primi libri che la deviazione per la Cina serviva a preparare un ritorno alla cultura dell’Occidente. Il suo utilizzo metodico della saggezza di tradizione confuciana e taoista svolgeva funzione di spaesamento, era un modo per prendere distanza dalla filosofia al fine di svelare gli assunti impliciti della nostra razionalità, le rive in cui scorrono i nostri pensieri. Grazie a questa vera e propria riflessione, al faccia a faccia fra la Cina e l’Occidente (che abbiamo conosciuto nel Trattato dell’efficacia, in Il saggio è senza idee, entrambi tradotti da Einaudi, in Parlare senza parole. Logos e tao, Laterza, in Nutrire la vita, Cortina, e l’elenco potrebbe continuare), si aprono scarti, più che differenze, che permettono di problematizzare il pensiero e sfociare su qualcosa di impensato. In effetti, nei suoi ultimi scritti i riferimenti al pensiero cinese si riducono, come se quest’ultimo restasse soggiacente, pur continuando a sfruttarne le risorse.

In primo luogo, se penso al mio percorso in termini di deviazione (detour) e ritorno (retour), quel che mi sembra importante è che la deviazione è al tempo stesso un ritorno e quest’ultimo non avviene dopo. Se così non fosse, non si tornerebbe mai, perché non la si finirebbe mai una volta entrati nella Cina. Ma credo che il mio lavoro abbia conosciuto un secondo tempo, così come ho parlato di una “seconda vita” [titolo del libro tradotto da Feltrinelli nel 2017], e che il mio progetto sia stato un progetto da filosofo, non da sinologo, da filosofo che può prendere distanza dalla Grecia e che cerca uno scarto per rispondere, o meglio, non proprio rispondere, ma per pensare quel che chiamiamo la verità dei Greci, la loro eredità, da cui non siamo usciti. Sono dunque passato dalla Cina, dalla sua esteriorità rispetto a noi, ma avevo sempre in mente il mio progetto filosofico, progetto generale, come ogni filosofia ... Dunque, c’è in effetti un secondo tempo del mio lavoro in cui penso di avere meno bisogno di lavorare sui testi cinesi, cosa che ho già un po’ fatto, e che posso tornare a raccogliere delle sfide filosofiche. Ora, la Cina è sempre presente nel mio lavoro, costituisce un operatore teorico, ma non viene molto tematizzata in quanto tale. D’altra parte, nel mio cantiere propriamente sinologico, la questione del vivere era già all’opera. Dunque si tratta per me, in questo secondo tempo, a partire dal mio cantiere tra il pensiero cinese e quello europeo, di far lavorare tutto questo per riprendere questioni filosofiche, appoggiandomi sul lavoro precedente, in modo da lavorare il campo filosofico europeo osando più di quanto la filosofia faccia abitualmente. L’intimo è proprio questo, perché l’intimo è il concetto che più resiste al concetto. Quel che cerco di fare in questo secondo tempo del mio lavoro, che fa seguito al primo, è di aprire dei nuovi possibili.

La prima fase del suo lavoro ha mostrato come sia possibile porre a confronto culture profondamente diverse, farle dialogare, superando anche la dibattuta questione del relativismo. Al tempo stesso, Lei sostiene l’urgenza di uscire dalla retorica del “dialogo fra le culture”, sempre auspicato e raramente praticato, anche perché ci si attiene a categorie tipiche dell’Occidente, come la nozione di identità, mentre, come dice il titolo di un suo libro, l’identità culturale non esiste (Einaudi, 2018). Ed è un problema che riguarda anche l’unificazione europea, il cui sogno ha perso indubbiamente il suo slancio di fronte al prevalere delle esigenze di mercato e al risorgere dei nazionalismi.

In effetti è così. Ora, dia-logos in greco evidenzia con il dia- lo scarto e la separazione, se no non sarebbe un dialogo ma un monologo. Il dialogo è fecondo perché c’è lo scarto ed anzi tanto più fecondo quanto più vi sono degli scarti in gioco. E un dialogo richiede un percorso, non è immediato, bisogna sviluppare le condizioni di possibilità del dialogo ed è un lavoro progressivo. Per quanto riguarda l’Europa, posto che davvero si voglia fare l’Europa, è esplorando i suoi scarti culturali e rendendo tali scarti dialoganti in modo fecondo che si potrà costruirla. L’Europa può farsi solo a partire da un dialogo che è in primo luogo culturale. È una questione a cui tengo, perché vi è un’antica tradizione per la quale la cultura è ciò che viene dopo, prima c’è l’economia, la società, come voleva il marxismo. Quel che viene prima è la dimensione culturale, la dimensione economica e quella sociale vengono dopo, e questo vale anche per i rapporti con la Cina. Io credo che l’Europa si potrà fare se essa saprà apprezzare le proprie risorse culturali e trarre partito dalle proprie differenze, di lingua e di pensiero, soprattutto di lingua. Si tratta di attivare le risorse delle lingue, di quella italiana come di quella francese. Io non difendo soltanto il francese, difendo le lingue dell’Europa, le considero sullo stesso piano, come le differenze di culture. Credo che vi sia qui qualcosa di decisivo perché si possa davvero fare l’Europa.

Il processo di formazione dell’Europa si è anche bloccato sul dibattito relativo alle sue radici, nozione che Lei ritiene pericolosa perché rischia di imporre statiche identità settarie. Lei ha spiegato che sarebbe meglio parlare di risorse, che si possono sfruttare, di qui il titolo Risorse del cristianesimo (Ponte alle Grazie, 2019), un saggio in cui rilegge il Vangelo di Giovanni dalla prospettiva della vita. E la risorsa fondamentale del cristianesimo è l’ideale dell’incontro con l’altro come colui che permette di uscire da sé.

Qui mi allontano da quella che è stata la via principale di lettura critica del cristianesimo in Europa, quella di Feuerbach, per il quale il cristianesimo è interpretato a partire dal miracolo, dunque in relazione al conflitto fra razionalità e irrazionalità. Giovanni non usa il termine “miracolo”, parla di “segno” e pensa il cristianesimo come rapporto con l’altro, che egli chiama Dio. E quel che produce questo rapporto all’altro è la capacità di tenersi al di fuori di sé, cioè propriamente ex-sistere, esistere. Credo che la grande originalità, la specificità del cristianesimo stia nel pensare, in greco, l’altro in modo totalmente diverso dalla filosofia greca. Per la filosofia greca, l’Altro non è che il contrario dello Stesso, l’altro dialettico, platonico. Ma questo non è per nulla il pensiero di Giovanni. Quel che mi interessa è appunto il modo in cui Giovanni apre dei possibili in greco in senso contrario, ovviamente senza saperlo, rispetto alla filosofia greca, perché nella tradizione ebraica e cristiana l’altro è l’altro che si incontra, è l’altra persona, come nella parabola del Samaritano. E questo è legato alla possibilità o meno dell’incontro, alla sua difficoltà, al suo carattere vertiginoso; ed è qualcosa di totalmente diverso rispetto alla logica greca, dei Sofisti e di Platone. Credo che il cristianesimo, se vuole riflettere su se stesso, debba ripartire da qui, da questo possibile che esso apre, quello di pensare, in greco, l’apertura all’altro. E l’intimo è proprio questo, l’apertura ad opera del cristianesimo all’altro in quanto altro, come spiega Giovanni - “io sono nel Padre e il Padre è in me”, io sono in te: cosa significa essere nell’altro, tenersi in sé nell’altro, ed è questo propriamente e-sistere.

Lei mi chiede di questo libriccino, a cui ho dedicato molta cura e che mi ha procurato anche molte noie, che certamente ho meritato, ma ci sono stati duemila anni di cristianesimo che hanno fatto di tutto per rendere non interessante il testo di Giovanni, a partire dalla traduzione. Nel prologo del Vangelo di Giovanni troviamo scritto egheneto, che significa “avvenne”, e il traduttore si industria a variare questo termine, mentre bisogna conservarlo nella ripetizione che forma un concetto. Si tratta di pensare l’avvento, il rapporto con l’altro, pensare l’esistenza, e dunque si tratta di risorse e di risorse attive. Lo stesso vale per la distinzione fra psyché e zoé; non capisco, pur non essendo cristiano come molte altre persone, che mi si faccia leggere la frase di Giovanni “Chi ama la propria vita la perde” come una formula che non si comprende in francese. Ma se mantengo la distinzione, “chi ama la propria vita” in quanto psyché, il semplice essere in vita, “perde la sua vita”, in quanto pienezza di vita, zoé in greco, allora capisco. E quando al contrario trovo scritto che “chi rinuncia alla propria vita (nel senso di vitale, psyché) si apre alla vita (vivente, zoé)”, allora comprendo e molto bene. Trovo aberrante che si sia conservata una non intelligenza del testo biblico, in questo caso evangelico, mentre in greco la cosa è chiara, netta. È davvero qualcosa di inaccettabile.

In quel piccolo libro sostengo che la questione di credere o meno non è importante e che l’Europa si disfa perché non sa farsi carico della questione cristiana, su cui ci si spacca, in Francia e altrove. Trovo dunque che vi sia una responsabilità storica in merito a questo, una responsabilità che ha dimensione politica perché, se si vuole fare l’Europa, bisogna in primo luogo stabilire, decidere, cosa se ne vuole fare del cristianesimo. Eredità difficile, certo, scomoda, ma la questione da riprendere non è quella di credere o meno; mentre, se non si comprende il messaggio di Giovanni quando dice che vi sono psiché e zoé, cioè la vita del vitale e la vita del vivente, se ne fa qualcosa a cui si deve semplicemente credere. Dunque la fede diventa il prodotto di una incomprensione prodotta dalla lettura del testo. Ritengo che si debba farla finita con tutto questo, uscire dalle critiche antiche al cristianesimo, alla Feuerbach, alla Spinoza, e dire che il cristianesimo è qualcosa d’altro, il pensiero dell’altro, dell’altro nel suo incontro, nel suo incontro impossibile: è quel che dice il racconto evangelico. Occorre ripensare il cristianesimo come risorsa, non come sorgente [source], ma come ressource, cioè una sorgente che torna, che riemerge, che non si spegne. E trovo che questa mancata comprensione abbia conseguenze politiche disastrose, in merito alla nostra capacità di fare l’Europa.

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