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Doomsday Clock.... Fine della Storia o della "Preistoria"?

TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA. COMMENTO APOCALYPTICO DI SCUOLA GIOACHIMITA, DANTESCA, KANTIANA, E MARXIANA - a cura del prof. Federico La Sala

J. Chirac, alla conferenza dei «Cittadini della Terra»: «Siamo alla soglia dell’irreversibile» (2007).
venerdì 19 gennaio 2007 di Maria Paola Falchinelli
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. Commento apocalyptico di scuola gioachimita, dantesca, kantiana, e marxiana
Roma soggiogò la Grecia,
la Grecia soggiogò Troia,
ma Troia soggiogò la Grecia,
soggiogò Roma,
e tutta la Terra.
Non sarà niente di previsto!
Hitler, il Vietnam saranno niente a confronto.
La violenza subita e immagazzinata da secoli
nel nostro corpo - terrestre!,
tenuta a bada da catene sempre più solide,
infine eromperà.
L’inimmaginabile!
Chi sogna l’età dell’oro? Chi (...)

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> TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA. -- SCAFFALE: «L’infamia originaria» e «Il desiderio dissidente». "L’esorbitante scoperta della dipendenza" e "il presente della politica".

martedì 4 dicembre 2018

Cultura

L’esorbitante scoperta della dipendenza

SCAFFALE. «L’infamia originaria», di Lea Melandri. Dopo 40 anni, rieditato uno dei testi storici del femminismo italiano

di Ambrogio Cozzi (il manifesto, 04.12.2018)

«Il problema della dipendenza, oltre a essere più che mai attuale, è come se si rivelasse ora carico di implicazioni complesse e profonde. Di fronte a un ordine che sta franando, lo sforzo di saldare le spaccature e di coprire le voci dissonanti risponde a un bisogno di conservazione non meno materiale della conservazione fisica in senso stretto. Le stesse persone che auspicano lo sfaldamento della piramide capitalistica non sempre riescono a sottrarsi alla tentazione di rinsaldare i vertici di altre organizzazioni solo apparentemente alternative». La citazione è tratta dalle prime pagine del volume L’infamia originaria, di Lea Melandri, appena ripubblicato per manifestolibri (pp. 144, euro 15) e costituisce una sorta di filo conduttore di tutto il testo.

IN ANNI in cui si esaltava il concetto di autonomia Melandri, controcorrente, invitava a riflettere sulla dipendenza, contrapponendo quindi a una rappresentazione ideale dell’agire politico la materialità di una sopravvivenza che esorbitava l’ideale e che nell’ideale non si lasciava ricomprendere. Questa eccedenza indicava la sopravvivenza di qualcosa di arcaico che il politico aveva espulso e che forse nel politico non poteva essere ricompreso. Contro le reificazioni che risolvevano il problema attribuendo concretezza a entità astratte, ricercava le linee di frattura che indicavano un oltre, le esperienze quotidiane che mostravano come le magnifiche sorti e progressive fossero afflitte da scorie che non potevano essere eliminate a priori, pena il loro riemergere sotto altre forme, mostrando nella ripetizione, nel loro ritorno la persistenza di un rimosso che comunque voleva emergere.

INTRAVEDEVA allora nel «miserabilismo di sinistra» un elemento di critica a chi riduceva l’esistenza all’economico, alla critica dell’economico, il resto sarebbe arrivato. La sua analisi dell’occupazione delle case di via Tibaldi metteva in luce un altro aspetto della dipendenza che si creava tra gli occupanti e coloro che organizzavano l’occupazione. «La dipendenza accresceva quindi anche la competizione tra le famiglie e l’aspettativa nei confronti dei compagni. Lo sviluppo dell’autonomia richiede un estremo impegno da parte di tutti perché ci sia effettivamente la responsabilizzazione e la partecipazione attiva di tutta la collettività». Il richiamo alla responsabilità andava allora inteso come richiamo alla capacità di rispondere, di assumersi il peso di una risposta che evitasse di eludere il problema della dipendenza che non interrogata, accantonata, si riproponeva come presente e pervasiva.

Un discorso coraggioso, che indicava quel che non si voleva vedere, che cercava di includere nell’oggi quel che dello ieri continuava a sopravvivere, la parte oscura, perché la dipendenza attraversava le storie di ciascuno, il come ognuno ci aveva fatto i conti, soprattutto apriva alle relazioni tra uomo e donna, alle relazioni tra donne e tra uomini, alla vita quotidiana che non poteva essere interamente nel politico, ma necessitava comunque di parole che potessero dirla, connotarla, darle un senso che non poteva nascere ex novo se non faceva i conti con un passato che la segnava come pesante zavorra. «Se la politica è così carica a nostra insaputa delle situazioni personali, allora anche la politica va ripensata a partire da tutto il cumulo del non detto, del negato che c’è dentro».

NEL NON DETTO rientrava la paura, le paure che accompagnavano le esistenze e che facevano da sfondo o tessevano le trame di scelte che venivano giustificate in termini ideologici per garantire la sopravvivenza dell’ideale. L’ideale esaltava l’autonomia senza fare i conti con le paure che l’accompagnavano e che riproponevano nuove dipendenze, che venivano agite proprio perché non dette. In questo vicina a tutto il lavoro del gruppo de «L’erba voglio» che cercava di problematizzare quel che veniva dato per scontato. Il darsi le leggi si risolveva spesso nell’accettazione di nuove leggi, a volte più coartanti perché si faceva coincidere idealmente lo scegliere con il subire. Contro queste coincidenze il lavoro di Lea Melandri cercava di svelare i nessi che venivano facilmente saltati, denunciando una presunta oggettività che faceva coincidere l’oggettivo con il naturale liquidando il problema, ma anche trovando che il nesso tra natura e cultura andava affrontato, non in cerca della soluzione ma in un lavoro che ne tenesse conto.

MA OGGI ripubblicare questo lavoro non può risolversi in un lamento su ciò che poteva essere e non è stato. Oggi quando per dirla con Scurati si sta trasformando la paura in odio, il richiamo alla responsabilità è ancora più urgente. Il testo allora può essere riletto come un invito a poter dare parola alle paure, un sobrio richiamo alle difficoltà che ci attraversano per fermare la caduta verso l’odio, un rifiuto di facili schematismi che indicano sempre nell’altro la fonte delle paure per riconoscerle invece come nostre, come una formazione di compromesso che ci appartiene e con la quale occorre fare i conti. «C’era la smentita continua della dipendenza nel senso che la risposta magari non veniva dalla persona da cui la si aspettava, ma da un’altra». In questa frase riferita a un lavoro in un gruppo di donne troviamo un’apertura alla parola dell’altro, al saper ascoltare come indicazione di una strada in cui la parola non ricopre certo tutto, ma il dire aiuta a fermare l’odio.


«L’erba voglio» e il presente della politica

SCAFFALE. «Il desiderio dissidente», un volume a cura di Lea Melandri edito per DeriveApprodi

«La rivoluzione, come il desiderio, è inevitabile e imprevenibile, e non finirà mai di sconvolgere i custodi del terreno dei bisogni»; così Elvio Fachinelli nel suo volume Il bambino dalle uova d’oro (1974) restituiva in un breve passaggio alcune questioni cruciali che in quegli anni attraversavano pratiche politiche e discussioni pubbliche. E se la rivoluzione atteneva al fulgore di una esperienza «esclusiva» come quella del ’68, vi era qualcosa che era stato lasciato fuori e che, ormai da qualche tempo, era stato riammesso alla «dignità» di menzione: Il desiderio dissidente, luminosa sintesi che lo stesso Fachinelli nel ’68 ha dato in riferimento al movimento studentesco, e che oggi è il titolo di un volume tanto prezioso quanto attuale. Per le cure di Lea Melandri, si tratta di una antologia (edita da DeriveApprodi, pp. 249, euro 19) che raccoglie alcuni interventi pubblicati tra il 1971 e il 1977 nei ventotto numeri della rivista «L’erba voglio». Antiautoritarismo, scuola, femminismo, antipsichiatria, molti sono stati i temi esplosi in quegli anni, detonando ciò che era rimasto a latere dell’intransigenza. Antimilitarismo, lotte operaie, atomizzazione del lavoro, controinformazione, la «sfinge della psicoanalisi».

A fare da contrappunto erano esperienze e intelligenze tra le più brillanti e irriverenti di quegli anni, non solo della scena milanese. Aprire a corpi, sessualità, vita affettiva, senza sconti, è stata la scommessa per creativi e appassionati nodi, interrogati sì che poi sarebbero riemersi e che, a ben guardare, hanno senso ancora oggi. È in questa direzione che Melandri ha operato una scelta di ciò che può risultare ancora oggi urgente, preferendo alcune tra le firme più efficaci. Il desiderio dissidente ospita dunque Luisa Muraro - in un affilato testo del 1972 - e la sua riflessione sulla politica mutilata là, in quella «zona d’ombra», dove si sono trovate le donne sia rispetto alla storia collettiva che alle teorie rivoluzionarie.

Così ancora Elvio Fachinelli sulle connessioni tra sogno e apparato di dominio; infine Giovanni Losi, Valentina Degano, Mario Casari, e ancora Caterina Guerra, Antonio Prete, Antonella Nappi e altri, compresa la stessa Lea Melandri e il suo contributo del 1975 intitolato «L’infamia originaria» (due anni più tardi diventerà il titolo di un libro importante per la storia del femminismo italiano) in cui, nella crepa tra la coercizione e il suo fantasma, tra la delega e l’autonomia, si annida il sorriso di Franti. Fuori dall’ortodossia, dentro il sovvertimento e l’anomalia di cui anche «L’erba voglio» ha fatto parte.


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