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Doomsday Clock.... Fine della Storia o della "Preistoria"?

TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA. COMMENTO APOCALYPTICO DI SCUOLA GIOACHIMITA, DANTESCA, KANTIANA, E MARXIANA - a cura del prof. Federico La Sala

J. Chirac, alla conferenza dei «Cittadini della Terra»: «Siamo alla soglia dell’irreversibile» (2007).
venerdì 19 gennaio 2007 di Maria Paola Falchinelli
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. Commento apocalyptico di scuola gioachimita, dantesca, kantiana, e marxiana
Roma soggiogò la Grecia,
la Grecia soggiogò Troia,
ma Troia soggiogò la Grecia,
soggiogò Roma,
e tutta la Terra.
Non sarà niente di previsto!
Hitler, il Vietnam saranno niente a confronto.
La violenza subita e immagazzinata da secoli
nel nostro corpo - terrestre!,
tenuta a bada da catene sempre più solide,
infine eromperà.
L’inimmaginabile!
Chi sogna l’età dell’oro? Chi (...)

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> PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA. --- "PANDEMIC FATIGUE": "SPIRAGLI NON SOLO DAL VACCINO". L’arcobaleno nella tempesta Covid. Intervista a Ilaria Capua (di Giulia Belardelli)

martedì 17 novembre 2020

Ilaria Capua: "Spiragli non solo dal vaccino, ora scongiurare il contagio animale"

La virologa ad Huffpost: "Se Covid 19 diventa panzoozia e colpisce tante specie animali ne perdiamo il controllo"

di Giulia Belardelli (Huffpost, 17/11/2020)

“Contro la pandemic fatigue non ci sono pozioni magiche: ciascuno di noi è chiamato ad alzare il proprio tollerometro. Stiamo vivendo una fase di trasformazione epocale: accanto a tutte le difficoltà, abbiamo l’occasione di abbandonare alcuni percorsi obsoleti e provare nuove mappe mentali. C’è un arcobaleno alla fine della tempesta Covid, tra le nuvole possiamo già intravederne i colori...”. Ilaria Capua, direttrice del One Health Center of Excellence dell’Università della Florida, ha sempre esortato a guardare la pandemia da una prospettiva più ampia, includendo anche l’ambiente e il mondo animale. Perché è in questa trama di relazioni che si intrecciano i rischi e le opportunità di domani.

Dottoressa Capua, il caso visoni in Danimarca ha acceso i riflettori sul rischio che il virus si diffonda incontrollatamente in altre specie animali. Quanto è concreto questo rischio?

“È una prospettiva che il mio gruppo di ricerca aveva già segnalato in tempi non sospetti, prima che scoppiasse il caso in Danimarca e altrove. In un articolo pubblicato a maggio scrivevamo che questo rischia di essere il primo virus pandemico che diventa una panzoozia, cioè che colpisce anche tante specie animali; in un’altra pubblicazione uscita a settembre osservavamo che i mustelidi (la famiglia dei visoni e dei furetti, per intenderci) sono animali che possono diventare serbatoio per questo fenomeno panzootico. Ad oggi sappiamo che i mustelidi sono molto ricettivi - ci sono stati casi anche in Olanda e negli Stati Uniti - e non abbiamo dati sui mustelidi selvatici”.

Quali sono i pericoli per l’uomo di un’ampia circolazione del virus tra altre specie animali?

“È tutto molto complicato. Il rischio che il virus circoli negli animali, e soprattutto negli animali selvatici, è che si perda definitivamente il controllo dell’infezione. È impensabile fare sorveglianza e andare a controllare le donnole o le faine nel loro habitat naturale. Il virus chiaramente potrebbe mutare in un’altra specie animale e questo potrebbe minare le nostre possibilità di controllare la pandemia. Le parole d’ordine non possono che essere flessibilità e attenzione, perché il virus sta facendo esattamente ciò che ci si aspetta da lui: si sta endemizzando in tutte le specie ricettive, compresi i mustelidi”.

In che modo queste mutazioni possono minare le nostre strategie di contenimento del coronavirus? I pericoli maggiori vengono dagli allevamenti intensivi o dagli animali selvatici?

“È un virus completamente nuovo quindi non lo sappiamo. Di certo però gli allevamenti intensivi sono controllati, gli animali selvatici molto meno”.

L’ultima copertina dell’Economist mostra una chiara luce in fondo al tunnel. “Suddenly, hope”, è il titolo. Il riferimento è alle notizie incoraggianti che arrivano sul fronte dei vaccini. È davvero così? Si vede la luce in fondo al tunnel?

“La luce alla fine del tunnel c’è e c’è sempre stata. Da questi fenomeni epocali l’umanità è sempre sopravvissuta, anche quando non c’erano i vaccini, i monoclonali, gli antibiotici. Pensiamo alla Spagnola, cent’anni fa: era un virus influenzale, molto più aggressivo di questo e che colpiva i giovani. Eppure, nonostante tutto, siamo qui. Oggi, a circa un anno dall’emersione di questo virus, sappiamo alcune cose, a cominciare dal fatto che eravamo del tutto impreparati”.

Nell’attesa di un vaccino e cure più efficaci, le misure di contenimento restano l’unico strumento per frenare la corsa del virus. Quella luce in fondo al tunnel però è bene raccontarla. Proviamo?

“Il tasso di letalità oggi è molto più basso rispetto alla scorsa primavera. Questo perché adesso la luce in fondo al tunnel è più chiara e fatta di molti elementi. Non parlo solo del vaccino, ma di una serie di vaccini che avranno caratteristiche diverse e andranno a unirsi a un armamentario di strumenti che abbiamo collezionato in questi mesi: una migliore comprensione della malattia, protocolli di intervento precoce, trattamenti come la sieroterapia, farmaci come gli antivirali e i cortisonici, e poi addirittura una terapia miracolosa come quella basata sugli anticorpi monoclonali”.

Una terapia che però è impensabile usare per tutti, giusto?

“È una terapia efficace se si fa entro un certo periodo: l’anticorpo monoclonale blocca la replicazione del virus, quindi se una persona sta già male e il virus ha fatto i suoi danni, non serve più. Sono delle proteine di sintesi, degli anticorpi fatti in laboratorio che però si producono in volumi bassissimi e dunque hanno un costo molto alto. Non è pensabile che questo sia il farmaco che possa essere dato a tutti per girare liberamente. Magari fosse così! È un trattamento che non si riesce a produrre in grandi quantità, è come la pappa reale, che è l’alimento destinato all’ape regina. Ne abbiamo visto gli effetti su Donald Trump, la cui cura è costata centinaia di migliaia di dollari”.

Questo fatto fa comprensibilmente un po’ rabbia, un sentimento che non aiuta ad assumere un atteggiamento costruttivo...

“I costi, purtroppo, sono pazzeschi anche per un normale ricovero in terapia intensiva. È per questo che ciascuno di noi deve cercare di non ammalarsi. Noi per primi - le persone che non devono essere in prima linea o svolgere lavori ad alto rischio - dobbiamo dimostrare che tenendosi lontani dal virus è possibile non prenderselo. Se proprio ci si deve ammalare, più tardi avviene, meglio è: se oggi, a un anno dalla scoperta, vediamo la luce grazie a 5-6 protocolli che funzionano, tra un mese potremmo averne 20”.

Torniamo ai vaccini, volutamente al plurale. Qual è il vantaggio di averne diversi? Quali le sfide?

“Siamo di fronte a una situazione unica. È per questo che bisogna organizzarsi per avere dei piani di distribuzione che tengano conto delle specificità dei diversi vaccini che verranno approvati. Ce ne potrebbero essere alcuni che funzionano meglio su determinate categorie di persone, altri che danno una protezione più immediata, magari con una sola dose; alcuni andranno conservati a -70, altri a -20... Bisognerà tenere conto non solo delle caratteristiche del prodotto ma anche delle esigenze della distribuzione e della somministrazione. Bisognerà mettere in campo un mix di organizzazione e flessibilità”.

Secondo uno studio dell’Istituto Tumori di Milano, il virus circolava in Italia già a settembre 2019. Cosa ne pensa? La storia dell’epidemia è ancora tutta da scrivere?

“Questo dovrebbe essere un dato confermato da altri studi europei. Non c’è ragione per credere che il virus sia arrivato in Italia mesi prima rispetto ad altri Paesi europei. Se questo dato verrà confermato da studi analoghi fatti in Germania, Francia, Spagna, allora vorrà dire che il virus è circolato per molto tempo sotto traccia: saremmo di fronte a un fallimento clamoroso del meccanismo di sorveglianza, un fatto gravissimo. C’è da augurarsi che si siano sbagliati; nell’attesa di conferme, meglio essere cauti”.

A fine aprile ci raccontava in anteprima del progetto concepito insieme a Fabiola Gianotti del Cern per “battere il Covid con le intelligenze collettive”. A che punto siete?

“Il progetto sta andando avanti, si chiama Circular Health. Abbiamo aggiunto diversi gruppi tra cui la Fondazione ISI di Torino e l’Universita’ Bicocca di Milano. Stiamo lavorando su molte tematiche interdisciplinari, dall’impatto della diversità di sesso e genere sul virus alla comorbidità (quali sono le patologie intercorrenti con le quali si è più a rischio), dalla resilienza della natura a quella urbana. Esattamente un anno fa, prima della pandemia, lanciavamo Beautiful Science, una campagna sul senso d’orgoglio per i propri scienziati: credo che l’Italia debba veramente ricordare quanto è importante avere dei team di ricercatori e ricercatrici che ogni giorno, nonostante tutto, si alzano e vanno a lavorare per proteggere e preservare la nostra salute”.

In questa seconda ondata si parla molto di pandemic fatigue, una sensazione di stanchezza diffusa che può generare meccanismi psicologici anche molto diversi, dalla depressione fino al negazionismo. Come far fronte a questa “fatica”?

“Innanzitutto riconoscerne l’esistenza è già tanto. Bisogna capire che esiste, che ci rende tutti molto più fragili e rende ancora più complessa la gestione di un fenomeno come questo, perché le persone mollano. La pandemic fatigue è proprio questo: quando le persone non ce la fanno più e dicono ‘basta’. È una resa alimentata anche dal fatto che arrivano messaggi contraddittori o segnali di grande speranza, che poi ovviamente vengono subito ridimensionati. Un tale zig zag emozionale - gioia / disastro - provoca per forza questo meccanismo psicologico. Ci si sente disorientati, stanchi, impotenti di fronte a un caos soverchiante. Aumenta il nervosismo, si litiga di più, si inizia a dire: ‘basta, me lo prendo il COVID e succeda quello che deve succedere’. Sta accadendo ovunque nel mondo, a livello delle istituzioni, delle strutture sanitarie, dei ragazzini che devono andare a scuola. Tutti sono stanchi e affaticati.
-  L’unica cosa che posso dire è: alziamo ciascuno il proprio tollerometro perché siamo in una situazione eccezionale, tiriamo fuori il nostro senso di gregge, secondo il quale se un lupo mangia la mamma pecora - gli agnellini li allatta un’altra mamma pecora. Diventiamo comprensivi, troviamo spazio per l’ascolto ma non per gli attacchi e lasciamo cadere le provocazioni. Alzare il tollerometro, mettere la mascherina e dare il buon esempio è tutto ciò che possiamo fare”.

Nel suo libro “Il dopo” spiega come il virus ci ha costretti a cambiare mappa mentale. Mentre le difficoltà sono evidenti a tutti, sulle opportunità si fa più fatica. Qual è la “cornice d’argento” di questo nuvolone in cui ci troviamo immersi?

“Ho addirittura aggiornato la cornice d’argento facendola diventare un arcobaleno. Ho scritto un editoriale che uscirà tra qualche giorno su una rivista del gruppo Lancet intitolato “L’arcobaleno nella tempesta Covid”. Credo che questa sia una grande opportunità: vivevamo lungo percorsi obsoleti che non possiamo più riprendere. Alcuni sistemi sono saltati: i trasporti, così com’erano, per un certo numero di anni non potranno più essere. Dobbiamo trovare il modo di continuare a fare quello che facevamo in epoca pre-Covid aggiornando i nostri sistemi. Dobbiamo confrontarci con un desiderio di mobilità che è completamente cambiato. Alcuni modelli basati sul turismo di massa non erano più sostenibili.
-  L’arcobaleno è la nostra possibilità di ripartire in un modo più sostenibile.

È tempo di occuparci della nostra salute in maniera circolare, cioè capendo che siamo dipendenti da tutto quello che succede dall’altra parte del mondo. In tempi recenti avevamo avuto molte avvisaglie: ci sono stati Ebola, Zika, l’influenza suina, la Sars... sono cose che succedono, le altre sono state fermate, questa no. Su un punto siamo tutti d’accordo: non possiamo permetterci un’altra emergenza come questa. Cambiare non è una scelta: è una necessità”.

La risonanza di teorie complottiste dimostra uno scetticismo diffuso attorno alla cultura scientifica e al pensiero razionale. È un fallimento della scienza? Del mondo della scuola? Come si rimedia?

“Uno dei pezzi dell’arcobaleno è che bisogna partire con un’alfabetizzazione scientifica maggiore. La pandemia è proprio l’occasione giusta perché ora tutti vogliono capire. Il mio invito è: prendiamo quello che di buono la pandemia ci lascia - consapevolezze, abitudini, comportamenti, la speranza di poter andare in una direzione in cui un fenomeno del genere, con questa gravità, non potrà più accadere.
-  “Ti conosco mascherina”, il libro che ho scritto per spiegare la pandemia ai bambini, contiene le 400 parole di sanità pubblica che spero abbiano più impatto di tutto ciò che ho scritto in questi anni. È un libro che va letto in famiglia: serve per normalizzare questo virus e far partire delle discussioni all’interno della famiglia su come lavorare insieme, come sviluppare insieme queste mappe mentali. Senza queste diventeremo obsoleti personaggi ‘vintage’ che rappresenteranno ai giovani di domani come era la vita prima della Grande Pandemia. Quella del 2020. ”.


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