IL CASO
Un medico vero elogia il dottore della tv: «È attaccato alla vita»
Nasce l’etica «Dr. House»
Non è un santo, ma soffre, e la sua sofferenza è una risorsa per le domande che riversa sui pazienti, coinvolti in una vera ricerca di senso
di Carlo Bellieni (Avvenire, 14.09.2007)
È ripresa in questi giorni la serie di «Dottor House», telefilm-cult della Fox, la storia del burbero e misantropico Gregory House: forse efficace, ma con cui nessuno vorrebbe umanamente avere a che fare.
Ma allora perché «Dottor House» piace tanto? Vediamo di capire con un esempio. Una puntata della serie precedente racconta la storia di un bambino autistico, che viene salvato con un’operazione chirurgica da morte certa per un’infezione. In uno scambio di battute con il collega Wilson (Robert Sean Leonard), House vede i volti dei genitori che lo riportano a casa e dice: «Di solito a questo punto, in una scala da 1 a 10, il punteggio di felicità dei genitori che riportano a casa il figlio è 10; qui è solo un 6!». Ma a quel punto il bambino si stacca dai genitori, si avvicina ad House e lo fissa negli occhi (i bambini autistici raramente fissano lo sguardo altrui, e lui non l’aveva mai fatto) e regala a House la sua Playstation... i genitori corrono da lui e in lacrime l’abbracciano piangendo dalla commozione, con House che conclude «Ecco, questo è un 10 pieno!».
Dunque, ecco il primo punto che colpisce: lo sguardo insolitamente positivo nel guardare certi "dilemmi etici" cui di solito la risposta è del tipo eugenista (quante volte passa il messaggio che un bambino autistico "deve" essere una "vita sbagliata" e unicamente un ostacolo per la vita serena della famiglia).
Ma non è un esempio isolato: in un altro episodio House rianima il jazzista paralizzato, nonostante ci sia un "testamento biologico" che impone di "lasciarlo andare"; una mamma sceglie di morire pur di non abortire; una bambina affetta da tumore è lucida al punto di essere il conforto per la madre che la vede giorno per giorno morire; House dissuade la moglie di un giocatore di baseball ad abortire («È vita!») e mostra alla direttrice sanitaria l’insensatezza della fecondazione eterologa. Questo, unito al progressivo riavvicinamento alla fede dell’intensivista Chase (Jessee Spencer), alle numerose canzoni a sfondo religioso (Waiting on an angel di Ben Harper, per esempio), a discorsi etici molto interessanti («Serve forse essere religiosi per dire che un feto è vita?», chiede la dottoressa Cameron), sono decisamente insoliti in telefilm-cult, di solito adagiati su posizioni di relativismo etico. Ma c’è un altro punto, forse più profondo:
J.K. Chesterton, riferendosi ai delinquenti che il suo Padre Brown smascherava, scrisse che il segreto del suo prete-investigatore era di essere come loro: «"Cioè che lei potrebbe peccare e diventare così?", chiesero a Padre Brown. "No - rispose - che io sono davvero come loro"». Ecco: House soffre, ma la sua sofferenza finisce per diventare una risorsa, arrivando a portare su di sé il disagio di chi sta male, col risultato di non trascurare quei segni che a tutti gli altri, invece, sfuggono. E dal dolore personale nasce una domanda che riversa sui pazienti, coinvolti in una vera ricerca di senso. Non a caso una delle canzoni che fanno da colonna sonora alla inquietudini di House è Desire («Vago senza direzione e motivo/ Cos’è questo fuoco che mi brucia lento?/ Oh desiderio!/ Mi conosci, non ti è fatica aspettarmi/ Non me lo mostri, ma è Dio che prego/ affinché tu mi trovi, mi veda, tu corra/ e non ti stanchi mai/ Oh desiderio!»). Dunque il rapporto tra medico e paziente non è a senso unico: non c’è chi solo dà, e chi solo riceve, ma è un legame di arricchimento per entrambi. Ed è il prototipo del rapporto davvero curativo: o riconosce un bisogno di umanità più profonda sia nel medico che nel malato, oppure è... zoppo. Quando House va dalla manager depressa dicendole disperato che avrebbe mentito per farle avere un trapianto di cuore, prima vuole ridestare in lei l’attaccamento alla vita («Devi dirmelo! Perché io... non lo so!») per sentirlo ridestare in sé. Certo, non vogliamo santificare House: è dichiaratemente ateo, a tratti flirta con l’idea dell’eutanasia o dell’aborto, e questo non lo condividiamo. Ma sarebbe così stupe facente sentirlo scagliarsi contro la droga o il sesso incestuoso, se fosse già un sant’uomo? Se fosse un santo non colpirebbe lo spettatore quando si fa interrogare dalla manina del feto che sbuca dall’utero aperto, e gli abbraccia il dito della mano, restando poi incantato ore e ore a riguardare quel dito e domandarsi il mistero di una vita nascosta ma presente. È un lavoro in corso, quello che avviene nell’animo di House, anche quest’anno ne vedremo delle belle.
House non c’è mai per i pazienti, ma alla fine sbuca di soppiatto dalla porta e ci mette alle corde chiedendoci se vogliamo vivere. Forse non è un buon medico, ma è umilmente sicuro di essere povero come gli altri. E da medico posso dire che questo è un buon inizio.