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Eu-ropa!!!

HRANT DINK, "ARMENO DI TURCHIA". L’ultimo messaggio del giornalista assassinato: "cercare di trasformare l’inferno in paradiso". IDENTIFICATO L’ASSASSINO.

Segnalazione del prof. Federico La Sala
sabato 20 gennaio 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] E’ chiaro che mi vogliono isolare, indebolire, lasciare privo di difese. Hanno ottenuto quello che volevano. Oggi sono in tanti a pensare che Hrant Dink sia uno che insulta i turchi. Ogni giorno mi arrivano sull’email e per posta centinaia di lettere di odio e minacce. Quanto sono reali queste minacce? Non si può sapere. La vera e insopportabile minaccia, però, è la tortura psicologica cui mi sottopongo. Mi tormenta pensare che cosa la gente pensa di me. Ora sono molto conosciuto: (...)

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> HRANT DINK, "ARMENO DI TURCHIA". L’ultimo messaggio del giornalista assassinato: "cercare di trasformare l’inferno in paradiso". --- 24 aprile 2015. A 100 anni dal genocidio armeno (di Miriam Rossi).

venerdì 24 aprile 2015

24 aprile 2015. A 100 anni dal genocidio armeno

di Miriam Rossi *

Oggi il mondo ricorda il genocidio armeno a un secolo esatto dal suo avvio, col rastrellamento di circa 200 intellettuali armeni nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 in quella che era ancora chiamata Costantinopoli. Nessuno sarebbe sopravvissuto alla deportazione verso l’interno della Penisola Anatolica, anzi la sorte di quegli uomini sarebbe stata condivisa da circa un milione e mezzo di armeni obbligati a incamminarsi tra la primavera del 1915 e il 1916 verso la Mesopotamia attraverso marce forzate definite “della morte”, in base a un progetto politico di “purificazione” etnica della popolazione dell’Impero Ottomano. La contestualità degli eventi bellici della prima guerra mondiale nonché la privazione delle guide spirituali e politiche della popolazione armena predisposta in quella prima strategica azione del 24 aprile di 100 anni fa dal ministro degli Interni ottomano Taalat Pasha, consentirono di fatto di trovare un popolo frastornato e allo sbando, privo di sostegno esterno o di forze proprie per opporsi a quel destino disumano.

Lo sterminio programmato degli armeni offrì infatti, suo malgrado, la fattispecie di riferimento con cui nei primi anni Trenta del ‘900 il giurista Raphael Lemkin coniò il termine “genocidio”, neologismo atto a indicare “un piano coordinato di diverse azioni miranti alla distruzione dei fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali, con l’obiettivo di annientare i gruppi stessi attraverso la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali del gruppo”. Nonostante la piena coincidenza di questa definizione con gli avvenimenti ampiamente documentati e il riscontrato obiettivo dello sterminio su basi etniche e religiose, il genocidio degli armeni, “primo genocidio del XX secolo” come ha voluto ricordare Papa Francesco nell’omelia di domenica 12 aprile dinanzi a una delegazione delle massime autorità politiche e religiose armene, non è ovunque riconosciuto. Se dunque i crimini del nazismo e dello stalinismo, entrambi citati da Papa Bergoglio nel proseguo del suo intervento, così come altri crimini genocitari commessi più recentemente in Cambogia, Ruanda, Burundi e Bosnia, hanno scritto nelle pagine della storia i nomi delle vittime e dei carnefici, pur nella complessità delle dinamiche conflittuali, paradossalmente il primo caso riconosciuto di genocidio appare ancora aperto. La negazione del massacro da parte delle autorità della Turchia, eredi del passato ottomano, continua a suscitare tensioni diplomatiche che animano di tanto in tanto le cronache dei media internazionali. Proprio le recenti esternazioni del Pontefice a ridosso di un anniversario tanto importante ha sollevato un prevedibile vespaio da parte del governo di Ankara e la messa in moto delle diplomazie tra Vaticano e Turchia.

Eppure il Primo Ministro turco, Recep Tayyip Erdogan, giusto nella medesima ricorrenza dello scorso anno aveva posto fine al negazionismo presentando le proprie “condoglianze” a nome della Repubblica Turca ai discendenti degli armeni sterminati nel 1915 sotto l’Impero Ottomano. Un’ammissione epocale perché per la prima volta un capo del governo turco aveva ammesso quanto accaduto, pur non spingendosi però a riconoscere nell’eccidio un atto di genocidio, un’azione che suscita una ben più alta riprovazione. La lotta contro il negazionismo dello Stato turco va dunque avanti e ampio seguito stanno ottenendo le attività promosse dall’Associazione “Remember 24 April 2015”, che ha organizzato per oggi una grande manifestazione a Istanbul per commemorare l’anniversario lanciando un appello all’unione tra i popoli, non solo per rendere giustizia agli armeni massacrati ma anche per dare un messaggio di garanzia delle libertà fondamentali e di piena democrazia. “Ricordo ed esigo” è lo slogan del centenario: ricordare ed esigere non solo per tener viva la memoria di ciò che è stato fatto, ma anche per condannare, giudicare ed esigere il riconoscimento del genocidio armeno nell’ottica che altri genocidi non possano accadere. Il negazionismo si configura infatti come una forma di prosecuzione del genocidio; da questa ragione deriva il forte impegno della società civile per convogliare in questo anniversario un’occasione per lenire il trauma del genocidio trasmesso da una generazione all’altra nelle comunità armene e, inoltre, per battersi contro il razzismo e l’odio che investe gli armeni e altre minoranze non musulmane.

Una ferita che a distanza di 100 anni non permette ancora alla Turchia di confrontarsi con il proprio passato e di riconoscere dunque il fatto storico nella sua pienezza. Le ragioni sono identificate dallo studioso turco Taner Akçam, tra i primi ad affrontare apertamente la questione del genocidio armeno in Turchia, nella coincidenza tra i padri fondatori del moderno stato turco e coloro che si sono macchiati di genocidio e che hanno generato la classe politica che si è poi mantenuta ininterrottamente al potere. Tuttavia fu lo stesso “padre” della Turchia moderna, Mustafa Kemal Atatürk, a definire l’eccidio armeno “un atto vergognoso” mettendo in piedi la macchina giudiziaria per processare i diretti responsabili del massacro. Un’esposizione che va contestualizzata nei complessi negoziati che la Turchia stava allora trattando da Paese sconfitto all’indomani del primo conflitto mondiale e dunque nel tentativo di dimostrare la propria serietà istituzionale, anche dando prova di democrazia e giustizia col caso armeno. Alla firma del Trattato di pace e in mancanza dell’accordo sul mantenimento dell’integrità territoriale della Turchia, la persecuzione degli autori del genocidio perse di significato. “Come potrebbero spiegare che per novant’anni hanno mentito? Se anche lo facessero non funzionerebbe” argomenta oggi Akçam. Sviluppare una nuova identità nazionale turca risulta allora indispensabile per il riconoscimento del genocidio, conosciuto in Turchia da appena il 10% della popolazione.

Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale e autrice di diversi saggi scientifici e di una monografia in materia. Attualmente impegnata nel campo della cooperazione internazionale, è referente per l’associazione COOPI Trentino e collabora con altre realtà del Terzo Settore a livello di formazione, progettazione e comunicazione.

* UNIMONDO.ORG, Venerdì, 24 Aprile 2015 (ripresa parziale).


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