Io cattolico ferito dalla Chiesa
di Roberto Carnero *
Da cattolico, sulla questione dei «Dico» e degli attacchi da parte della Chiesa Cattolica, mi vorrei rivolgere non tanto ai politici - invitandoli, come pure è doveroso, a resistere a questi attacchi - ma soprattutto ai cattolici stessi. Ora ci giunge un’altra notizia: l’annuncio, ieri, da parte del cardinal Ruini, che presto verrà pronunciata, in tema di unioni di fatto, «una parola meditata, una parola ufficiale, che sia impegnativa per coloro che accolgono il magistero della Chiesa e che possa essere chiarificatrice per tutti».
Quello che mi preoccupa maggiormente è l’espressione «impegnativa per coloro che accolgono il magistero della Chiesa». Il che, tradotto, significherebbe «vincolante per i cattolici». E, magari, particolarmente vincolante per quei cattolici che siedono in Parlamento come deputati e senatori.
Il che configurerebbe un’ingerenza davvero pericolosa non solo nelle coscienze, ma anche nella politica. Insomma, sembra che stia per arrivarci, tra capo e collo, un nuovo Sillabo (la condanna degli «errori» della modernità elencati da Pio IX nel 1864), che manda a carte e quarantotto l’idea di un cattolicesimo adulto (una Chiesa, come si è espressa il ministro Rosy Bindi nella bella intervista ad Andrea Carugati sull’Unità di domenica, «maestra di valori più che di comportamenti») e quel principio della libertà di coscienza più volte ribadito nei documenti del Concilio Vaticano II.
In quanto credente, in questi giorni sono parecchio imbarazzato da una posizione, come quella del Vaticano, che mi sembra, a dir poco, anticristiana. Il fatto è che certi cattolici sembrano essersi dimenticati di essere, prima di tutto, cristiani. Il mio invito è dunque ai cattolici, ai molti sacerdoti e vescovi che, sui diritti delle coppie di fatto, non si riconoscono nella linea Ratzinger-Ruini (e so, per diretta conoscenza, che ce ne sono molti), a dire apertamente la loro, a correggere la posizione indifendibile delle gerarchie e a pronunciare delle parole di apertura di cui, in molti che siamo cattolici, stiamo avvertendo tristemente la mancanza.
Purtroppo so che questo non sarà facile e che, a parte qualche vescovo emerito (come monsignor Bettazzi) e qualche prete di frontiera, difficilmente altri prenderanno la parola sulla questione, portando un punto di vista nuovo e diverso da quello dell’ufficialità. Il problema è che oggi nella Chiesa cattolica (e in quella italiana in particolare) è stato pressoché soffocato ogni dibattito interno. In questo senso sembrano davvero lontani anni luce i tempi del Concilio, quando la Chiesa conobbe una primavera di apertura al mondo contemporaneo ormai archiviata.
Chi si pone fuori dal coro sugli argomenti considerati «sensibili» va incontro all’ostracismo e all’esclusione. Cioè, se si tratta di un pastore, rischia di perdere «il posto». E, ora, anche il «semplice» credente potrà incorrere nella scomunica.
Ricordo quando una decina di anni fa la Lambeth Conference (il supremo organismo della Comunione anglicana), dopo lunghe discussioni, varò un documento sull’omosessualità in cui, alla fine, prevaleva il punto di vista tradizionale teso a negare la necessaria dignità a questa condizione. In quei giorni mi trovavo a Londra e la domenica successiva alla pubblicazione di quel testo, a St. Paul’s Cathedral (una delle chiese più importanti della capitale britannica), ascoltai un prete che dal pulpito dichiarava le proprie perplessità su quell’atto ufficiale della sua Chiesa, poiché - disse - «non si possono misconoscere le esperienze positive di amore e condivisione di molti nostri fratelli e sorelle omosessuali». Ebbene, quello che oggi manca tra noi cattolici è un analogo dibattito, franco e aperto, in cui ciascuno porti la sua voce, il suo punto di vista, per arricchire il confronto e per far sì che quanto diciamo come Chiesa sia, prima di tutto, conforme al Vangelo, più che allineato a certe battaglie astratte in difesa dello status quo. E per fare in modo che si comprenda come la Chiesa sia una comunità, in cui tutti hanno diritto di parola, e non un club per far parte del quale bisogna attenersi a un regolamento stabilito dalla direzione. Mi sia consentita un’altra memoria personale: nei miei anni inglesi, a stretto contatto con gli anglicani, mi resi conto di quanto lì la Chiesa fosse percepita da tutti come forza progressista. Viceversa da noi la Chiesa, quella cattolica, appare sempre più spesso istituzione reazionaria e conservatrice, in tutti i campi (vedi, ad esempio, i referendum sulla fecondazione assistita).
Il Vangelo dell’accoglienza ci insegna, soprattutto, ad ascoltare i bisogni e le esigenze del nostro prossimo. Un disegno di legge come quello dei «Dico» va esattamente in questa direzione. L’Arcigay ci informa che molti dei suicidi tra gli adolescenti sono dovuti alla scoperta dell’omosessualità. Cambiare questa cultura della colpevolizzazione probabilmente significa salvare delle vite. Quanto alle presunte conseguenze di scardinamento della famiglia tradizionale mi viene da compiere alcune riflessioni. Uno strumento come quello dei «Dico» non va ad attaccare la famiglia tradizionale, ma ad aggiungersi ad essa. Credo che a rendere difficile il formare una famiglia, non sia certo - come temono i vescovi - la concorrenza di modelli alternativi, ma piuttosto la situazione di incertezza generata da un lavoro sempre più incerto e precario. Per non parlare della questione della casa, bene di per sé primario, ma ormai per molti sogno proibito. Credo che sia proprio questo l’impegno da mettere in atto a favore della famiglia: soluzioni concrete a problemi concreti, come gli stessi «Dico» tentano di fare. Molto più che combattere anacronistiche crociate di cui la maggior parte dei cattolici italiani non sente affatto il bisogno. Mi piacerebbe che questo diffuso dissenso trovasse il coraggio e i modi per emergere
* l’Unità, Pubblicato il: 13.02.07 Modificato il: 13.02.07 alle ore 8.45