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Buon-messaggio (eu-angelo): il Logos non è il "Logo" del Vaticano!!!

COPYRIGHT E PIRATERIA VATICANA!!! DIO ("Deus charitas est") o MAMMONA ("Deus caritas est")? GRAZIA o CARO-PREZZO: QUESTO E’ IL PROBLEMA!!! L’AMORE ("CHARItaS") NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO. GESU’: "JE SUiS ... CHRETIEN" !!! Non ... "CRETIN" ... E NEMMENO CATTOLICO-ROMANO!!! - a cura di Federico La Sala

In memoria di Lorenzo Valla e del suo "Discorso sulla falsa e menzognera donazione di Costantino"!!!
mercoledì 14 febbraio 2007 di Maria Paola Falchinelli
Vaticano
Il papa con il copyright
Il vaticano sta lavorando a un provvedimento con il quale si intende tutelare con il diritto d’autore testi, fotografie, immagini e registrazioni della voce dei papi, e gli atti della Santa sede. La notizia è apparsa ieri sul «Sole 24 Ore». Il quotidiano scrive che nel testo, pronto tra un paio di mesi e scritto rifacendosi alla legge dello stato italiano, sarà previsto che per utilizzare libri, immagini e registrazioni audio, salvo eccezioni stabilite nel (...)

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> COPYRIGHT E PIRATERIA VATICANA!!! ---- IL DENARO IN TESTA!!! I guasti del denaro, ultimo totem (di Salvatore Bragantini).

sabato 19 febbraio 2011

I guasti del denaro, ultimo totem

di Salvatore Bragantini (Corriere della Sera, 19 febbraio 2011)

Il libro di Vittorino Andreoli, Il denaro in testa (Rizzoli), fa ripensare al peso di questo fattore, nefasto ma sempre mutevole. Tutta la storia dell’uomo narra le violenze fatte e le angherie subite, nel nome dei suoi grandi totem: il denaro e le religioni. Dio e Mammona hanno sempre trovato nel potere i loro modi di sontuosa convivenza; nel reciproco interesse. Alla fine, Andreoli elenca i bisogni veri dell’uomo: la sicurezza, l’amore, la continuità della vita attraverso i figli, la serenità e la gioia (più necessarie della libertà, scrive, e viene in mente l’arringa a Gesù del Grande Inquisitore) e così via.

«Per nessuno di questi bisogni serve il denaro, semmai aiuta a soddisfarli meglio». È questo, però, il problema. Certo, le società moderne sono tanto disossate da far dire a Margaret Thatcher (che ci ha messo del suo): «La società non esiste». Non credo però che, neanche in quell’era dorata che ci pare il nostro Rinascimento, si vivesse come in un’orchestra nella quale, «se tutti sono adeguatamente coordinati e danno il loro contributo all’insieme, la vita può diventare l’esecuzione della Nona sinfonia di Beethoven».

Da tempo, certo, il denaro deborda ben oltre i limiti propri di una convivenza ordinata. Da quando la società anonima ha circoscritto le responsabilità degli investitori, sono partite innovazioni che hanno rivoluzionato la vita; la ricchezza mobiliare fa a meno della terra, onde l’aristocrazia traeva potere e ricchezza. Ciò aumenta il numero dei ricchi, quindi la paura di diventare poveri; è chi sta male a sperare di stare meglio. I guadagni sono celati, le perdite lamentate in pubblico.

La finanza ha messo il turbo ai guadagni privati e alle perdite che le crisi finanziarie addossano al contribuente; se si può anticipare l’incasso anche di anni lontani, la tentazione di vendersi il vitello in pancia alla vacca mina il futuro. Ma il passato, aureo o no, non tornerà. Fra il 1950 e la metà degli anni Settanta gli eccessi del denaro non erano così visibili e dannosi. Le disuguaglianze erano minori. Le paghe dei megamanager avevano un rapporto con il loro lavoro, erano cinquanta volte quelle dei loro dipendenti, non cinquecento o mille; la deontologia professionale reggeva. Ciò costava nell’immediato, ma la reputazione era fonte di guadagni futuri; gli auditor non certificavano bilanci falsi per tenersi il cliente, le banche - settore sonnolento - non concedevano mutui farlocchi da rifilare a sprovveduti, vogliosi di strappare un lacerto di carne. La fine dello spauracchio comunista allentò le difese del capitalismo, mostrandone il volto peggiore; gli incassi immediati contarono più della reputazione.

I giudizi di Andreoli su finanzieri e imprenditori paiono a volte troppo tranchant; se (quasi tutti) sono mossi dalla maledetta fame di denaro, accostarli ai criminali è un po’ forte. E magari non è il mondo a essere mutato, ma la maggior esperienza di vita a mettere a nudo la realtà. Poco praticabili sono poi alcune sue ricette: sarebbe sì desiderabile che la psicologia dettasse all’economia la «giusta distribuzione dei compiti e dei mezzi... tenendo conto delle differenze, degli impegni e delle necessità di ognuno».

I tanti tentativi in tal senso della politica, tuttavia, pur ispirati alle migliori intenzioni, dicono che l’economia di mercato è il peggior allocatore delle risorse, a parte gli altri sistemi: come quella democrazia che con lei si è sviluppata, ma che dai suoi eccessi è messa a rischio. Ignoriamo gli esiti di una grave crisi che di quelle disuguaglianze s’è nutrita e deve ancora dispiegare le sue conseguenze economiche, sociali e politiche; la difesa, coltello fra i denti, della ricchezza impaurita ci darà forse brutte sorprese.

La direzione presa dal sistema negli ultimi trent’anni - più economia di business che di mercato - può farci tornare al punto di partenza; con la democrazia che conserva le forme ma trasmuta in aristocrazia, non della terra ma del denaro. Se per essere eletti servono troppi soldi, vince il più ricco o chi meglio si vende ai vested interest; con l’aiuto, troppo ignorato, di una tv che ha prima unito l’Italia, poi sfibrato gli italiani.

Le parole di Andreoli evocano nel lettore la sapienza laica - per cui è sventurato l’uomo che non dona e muore ricco - e religiosa: dalla «preghiera semplice» di Francesco - «È dando che si riceve» - al Vangelo: «Eppure vi dico che nemmeno Salomone in tutto il suo splendore fu mai vestito come i gigli del campo». Se hai bisogno di aiuto, si dice, chiedilo a un povero, lui ti aiuterà.

La ricchezza ci chiude, invece di aprirci al dono; fortunato chi per la cruna dell’ago sfugge a questa morsa. La povertà oggi diviene peccato, dice l’autore; peggio, il governo la considera spesso reato. Chi nasce povero ha più probabilità di restarlo oggi che nello scorso secolo breve.

La meta dell’uguaglianza dei punti di partenza, topos della democrazia liberale, che è morta con la tassa di successione, va risuscitata; deve però cessare l’atomizzazione dei saperi, deprecata dall’autore, per cui gli intellettuali più non leggono i libri di economia. Le colpe sono equamente ripartite, ma ricordiamolo: Adam Smith insegnava filosofia morale, non econometrica.


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