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EVANGELO E COSTITUZIONE. "Per amore del mio popolo non tacerò" (Profeta ISAIA).

PER L’ITALIA E PER LA CHIESA: LA MEMORIA DA RITROVARE. L’"URLO" DI DON PEPPINO DIANA. «La camorra ha assassinato il nostro paese, noi lo si deve far risorgere, bisogna risalire sui tetti e riannunciare la "Parola di Vita"». Riflessioni di don Ciotti e una nota di Raffaele Sardo - a cura di Federico La Sala

sabato 25 ottobre 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Un prete di quella Chiesa campana che nel giugno 1982 aveva avuto il coraggio di dire forte «basta!», con un documento dal titolo eloquentemente ispirato al profeta Isaia: Per amore del mio popolo non tacerò. Un grido di dolore, oltre che di amore. Elevato senza animosità, ma con molta nettezza. Un implicito punto di non ritorno rispetto a pezzi di Chiesa tradizionalmente attenti a non addentrarsi nei temi relativi a mafia e criminalità organizzata.
In quel fondamentale testo c’era (...)

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> PER L’ITALIA E PER LA CHIESA: LA MEMORIA DA RITROVARE. L’"URLO" DI DON PEPPINO DIANA. --- In 40mila nella terra dei clan. Ciotti: «Fuori dalla Chiesa i mafiosi» (di Enrico Fierro).

venerdì 20 marzo 2009

In 40mila nella terra dei clan. Ciotti: «Fuori dalla Chiesa i mafiosi»

di Enrico Fierro *

Un Paese in guerra. Con eserciti che si combattono, le battaglie vinte e quelle perse, i morti e i feriti, gli eroi e i vigliacchi. Sì, una guerra. Lunga e interminabile. È questa l’immagine che ti si fissa nella mente qui, a Casal Di Principe, lembo devastato della “Campania ferox”. Monnezza, veleni, guappi, killer, onesti e disonesti, e gli sfregi della devastazione sui paesi, sulle terre, finanche sulla vita della gente. E come in ogni guerra ci sono i sopravvissuti, le vedove, gli orfani, i fratelli e i genitori dei caduti. Per loro ci sono anche le medaglie del capo dello Stato. Alla memoria, quella che da quattordici anni, ormai, “Libera” e don Luigi Ciotti, prete e coscienza critica dell’Italia smemorata e rassegnata, coltivano con ossessione. “Non ne posso più!. Ogni anno la lista dei morti di mafia, camorra e ’ndrangheta si allunga”, dice dal palco ai 40mila che sono venuti in questo pezzo di Sud da tutta Italia. Anche dal Nord. Per non dimenticare, ma anche per urlare che “L’etica libera la bellezza”.

Slogan bellissimo

Slogan bellissimo e ingenuo in queste lande offese da politici che blaterano di legalità senza mai pronunciare la parola camorra, quaquaraquà che prendono voti e ordini dai boss. Ma lo slogan piace ad un vecchio uomo. La sua faccia è di quelle che incontravi nel Sud di una volta. Larga, sincera, con le rughe di un tempo scandito da fatica e sacrifici. E’quella di Gennaro Diana. Suo figlio si chiamava Giuseppe, don Peppino, il prete di Casale che la camorra uccise il 19 marzo di quindici anni fa. Questa giornata è intitolata a lui, il suo giovane volto è una effige stampata su manifesti, magliette, un grande striscione che occupa tutto il palco. Un “Guevara” cattolico per scout, studenti, ragazzini delle medie e bambini delle elementari col cappellino giallo. Il vecchio Gennaro si guarda intorno e sorride. “Hanno ucciso mio figlio, ma da allora è iniziata la loro sconfitta. La camorra non ha vinto”. Accanto ha sua moglie Iolanda, il nero addosso e la medaglietta col volto di Pinuccio al collo, e un altro figlio, Emilio. “La sera prima di essere ucciso Peppino aveva chiesto di comprare le zeppole per la festa di San Giuseppe. Da noi usa così”. La mattina del 19 marzo 1994, erano le sette , quando un commando della camorra casalese entrò nella sagrestia della chiesa del paese. C’erano pochi fedeli a quell’ora, don Peppino era senza protezione. I killer spararono. Uccisero davanti all’altare e al volto santo del Cristo, come nel Salvador di monsignor Romero.

Dal palco enormi casse diffondono una canzone di Vasco Rossi, “voglio trovare un senso a questa storia”, dicono le parole. Già, qual è il senso di questa storia di guerra che ci racconta la morte di un prete? “E’ la forza bestiale della camorra”, risponde Emilio Diana. “I boss, non potevano sopportare che un prete parlasse in chiesa contro di loro, gli intoccabili”. “Per amore del mio popolo non tacerò”, diceva don Peppino, il prete-profeta. Che aveva idee chiarissime sui mali della sua terra. “Il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La camorra riempie un vuoto dello Stato che nelle amministrazioni è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. Così la camorra diventa uno Stato deviante e parallelo rispetto a quello ufficiale”.

Ieri come oggi

Ieri come oggi. Tutto uguale in queste terre del Sud dove i boss eleggono sindaci e deputati, dove un sottosegretario potente del governo Berlusconi, Nicola Cosentino, è indicato da cinque pentiti come referente dei clan, dove i boss si sono infiltrati nel grande business dei rifiuti e dei centri commerciali, dell’edilizia e dello sfruttamento dei fondi europei. Li chiamano i casalesi. “Casalese non è il nome di un clan, ma quello di un intero popolo”, avverte uno striscione. “Anche mio padre era un casalese”. Parlano i figli di Federico Del Prete. Di mestiere faceva il venditore ambulante, per passione il sindacalista, per rabbia e senso civico denunciò imbrogli e estorsioni. Lo uccisero il 18 febbraio 2002. “Papà fu lasciato solo, aveva scoperto il racket delle buste di plastica imposte dalla camorra agli ambulanti, un affare da 5 milioni di euro. Aveva denunciato tutto e gli avevano assegnato una scorta saltuaria”. Quando salgono sul palco a prendere la medaglia d’oro concessa dalla Presidenza della Repubblica, i figli di Federico Del Prete si tengono per mano. Con loro i familiari di Domenico Noviello, anche lui faceva l’imprenditore, anche lui aveva denunciato il racket del pizzo. Anche lui era solo e fu ucciso per il suo coraggio. “E allora basta - urla don Ciotti dal palco - la Chiesa dica con chiarezza che gli uomini e le donne della mafia, i complici e i conniventi sono fuori”. E’una guerra che va combattuta con atti concreti, “lavoro, giustizia sociale, sicurezza”. Perché la mafia più pericolosa è quella delle parole”. “E a parole ci siamo tutti, sempre”, dice con malinconia don Luigi Ciotti.

* l’Unità, 20 marzo 2009


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