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Da una generazione all’altra ...

ANTONIO GRAMSCI (1891-1937). Per la ricorrenza dell’"anno gramsciano", iniziative e manifestazioni culturali in Italia e nel mondo - a cura di Federico La Sala

giovedì 1 marzo 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] Ecco le date: il 27 aprile a Cagliari, alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sarà presentato il primo volume della Edizione Nazionale degli scritti di Antonio Gramsci. Il 27 e 28 aprile a Roma si svolgerà il Convegno Internazionale "Gramsci, la cultura e il mondo "con la presenza di storici e politologi europei, statuntensi, latinoamericani, cinesi, indiani e del mondo arabo. Il 13 e 15 dicembre a Turi, in Puglia, si rifletterà sul tema "Gramsci nel suo (...)

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> ANTONIO GRAMSCI (1891-1937). ---- «Lettere dal carcere». La prefazione di Michela Murgia alla nuova edizione. Ecco perché è cruciale, oggi, leggere (o rileggere) le «Lettere».

martedì 5 aprile 2011

Ritorni.

La prefazione di Michela Murgia alla nuova edizione delle «Lettere dal carcere» (Einaudi)

Un testo che lo riavvicina ai contemporanei: no, non dev’essere soltanto un monumento nazionale

-  Gramsci non è solo un’icona pop
-  Restituiamolo ai ventenni di oggi

Un po’ come il Che...il volto di Gramsci è ormai un’icona. Eppure il suo pensiero rischia di essere come sterilizzato dalla sua stessa importanza. Ecco perché è cruciale, oggi, leggere (o rileggere) le «Lettere»...

di Michela Murgia (l’Unità, 05.04.2011)

Il volto di Antonio Gramsci è un’icona pop con livelli di riconoscibilità pari o di poco inferiori a quelli di Che Guevara, di Marilyn Monroe e di Martin Luther King. Nessun altro filosofo al mondo, eccetto Marx, ha esercitato lo stesso fascino di lingua in lingua, seducendo quattro generazioni con il suo pensiero innovativo e con la forza di una dialettica cosí tagliente da aver colonizzato il linguaggio ben oltre l’area ideologica a cui voleva dare riferimenti. Espressioni come «intellettuale organico», «egemonia culturale» e «ottimismo della volontà» - anche se non sempre usate propriamente rispetto al senso originario - fanno parte da tempo del linguaggio comune, giornalistico e televisivo. Eppure proprio questa sua progressiva trasformazione in monumento intellettuale rischia di rendere Nino Gramsci inavvicinabile alla passione di una ventenne o di un ventenne di oggi.

Troppo ingombrante per approcciarlo senza timori reverenziali, il pensiero gramsciano finisce per essere sterilizzato dalla sua stessa importanza, il che danneggia Gramsci stesso, ridotto a santino laico tanto citato quanto poco letto, e contraddice l’umiltà rigorosa che lo portava a credersi «semplicemente un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde e che non le baratta per niente al mondo». Ma soprattutto danneggia i ventenni, privati ingiustamente dell’incontro con la teoria di un maestro robusto e con la vita di un clamoroso testimone civile.

Queste lettere personali, quanto di piú lontano dall’accademia filosofica si possa immaginare, sono un ottimo modo per fare la pace con l’uomo Gramsci, conoscerne la vivacità di spirito, la piacevolissima prosa, la rettitudine morale e l’esperienza sofferta di perseguitato politico. Mentre i parenti lo piangevano carcerato e il regime fascista lo credeva politicamente neutralizzato, Gramsci rivendicava il senso della sua prigionia come atto di lotta, rivelandosi capace di generare formidabili chiavi di lettura del mondo proprio dal luogo in cui il mondo lo voleva muto e monco. Con orgoglio lo ripete alla cognata che nelle lettere lo compativa: «Io non sono un afflitto che debba essere consolato, e non lo diverrò mai». La vicenda biografica del carcere di Gramsci commuove, indigna e conquista al punto che, dopo questo approccio, avvicinarsi al suo pensiero piú strutturato sembrerà il naturale proseguo di un’amicizia spontanea con un uomo speciale.

LA FEDINA PENALE

Per avere una prospettiva completa sugli scritti personali di Gramsci in carcere bisognerebbe essere cosí fortunati da avere a disposizione due strumenti: il primo sono le lettere vere e proprie, l’altro è la sua fedina penale, perché il percorso intimo e quello burocratico carcerario si intrecciano in maniera cosí dissonante che solo accettando di stare dentro la loro contraddizione si può intuire davvero la complessità dell’uomo Gramsci e del tempo che ha vissuto.

Di solito i documenti giudiziari sono freddi e poco esplicativi, ma dalla lettura di quella preziosa fedina penale si capiscono invece molte cose, prima tra tutte che il regime fascista era un sistema ipocrita al punto da non poter fare a meno della messa in scena di una qualche forma di legalità: per combattere gli avversari politici non si limitava a imprigionarli, ma cercava di legittimare il proprio arbitrio costruendo intorno a loro un impianto formale fatto di reati inventati che attribuissero l’apparenza del danno sociale al moto di dissenso che si voleva soffocare.

Per mettere a tacere Nino Gramsci di reati ne furono inventati ben sei: cospirazione, incitamento ai militari per disobbedienza alle leggi, offese al capo del governo, incitamento alla guerra civile, incitamento alla insurrezione e al mutamento violento della costituzione e della forma di governo e infine incitamento all’odio di classe e alla disobbedienza delle leggi a mezzo stampa. Poiché però per reati fittizi non si possono chiamare in causa giudici veri, a decretare la condanna di Gramsci non era stata la magistratura ordinaria, ma una corte fascista, il Tribunale speciale per la difesa dello Stato in Roma, di fatto una magistratura parallela che si occupava dei nemici politici del regime. Persino la sentenza risentiva dell’ipocrisia del contesto: vent’anni di reclusione, seimiladuecento lire di multa, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e due anni di vigilanza speciale erano solo apparentemente una detenzione; a tutti gli effetti costituivano una condanna a morte, la traduzione formale della richiesta del pubblico ministero Michele Isgrò, un uomo talmente complessato dall’autorevolezza intellettuale dell’imputato da concludere la sua requisitoria con la famosa frase: «Dobbiamo impedire a questo cervello di pensare per vent’anni». Quel tribunale gli comminò dunque l’annullamento civile e quello politico, ma anche quello meramente fisico, perché nove anni dopo, quando il regime rilasciò Gramsci a causa delle sue disperate condizioni di salute, egli morí in meno di una settimana.

Nell’avvicinarsi a queste lettere non bisogna dimenticare che sono il testamento intimo di un uomo innocente finito in carcere a causa di quello che pensava, un uomo giovane che non si godrà il suo amore, che non vedrà crescere i suoi figli, la cui anziana madre morirà a sua insaputa e la cui salute declinerà gravemente di prigione in prigione, fino alla morte avvenuta a meno di cinquant’anni. Se non si ricorda questo, sarà facile farsi sedurre dallo spirito eccezionalmente vivace di Gramsci - quello che lui stesso definiva come «un certo spiritello ironico e pieno di umore che mi accompagna sempre» - che permea il carteggio al punto che egli quasi riesce nel miracolo di far dimenticare da dove e in che condizioni scrive.

Tenerlo a mente serve non solo a mantenere un corretto approccio ermeneutico ai testi, ma anche - ed è la cosa piú appassionante per un lettore che non abbia solo intenti accademici - a capire la misura morale di un uomo la cui libertà di spirito aumentava in proporzione inversa al peggioramento delle sue condizioni detentive.

In questo carteggio multiforme appaiono scorci splendidi della i prefazione sua natura umana: ricordi vividi dell’infanzia in Sardegna, l’amore per gli animali che Gramsci coltivava anche in cella addestrando passeri e altre creature che riuscivano a passare le sbarre, il rapporto via via sempre piú teso con la moglie e quello parallelo, tenerissimo e confidenziale, con la cognata, a tutti gli effetti una consorte vicaria.

UMORISMO E TENEREZZA

Ci si sbalordisce per la sua straordinaria passione per lo studio, che lo portava a leggere un libro al giorno delle materie piú svariate e in piú lingue, arrivando a mandarne a memoria alcune parti nei frequenti periodi in cui gli veniva impedito di avere a disposizione carta e penna per gli appunti. Si scopre in lui anche l’inatteso talento inventivo, proprio di un narratore naturale, che lo spingeva a costruire piccoli racconti per il diletto della cognata, spesso conditi da un irresistibile senso dell’umorismo.

Commuove la sua tenerezza di padre, quando completamente debilitato scrive ai figli piccoli gli ultimi brevi biglietti di saluto e istruzione, nei quali mai traspare la progressiva certezza di non rivederli piú. Conquistano persino certi cedimenti allo sconforto, alla rabbia, al senso di abbandono quando le lettere si diradano o si perdono, portandolo a lamentarsi vivacemente. Questo piccolo, stortignaccolo uomo in carcere giganteggia davanti al lettore in ogni riga e senso possibile, e a centovent’anni dalla nascita continua a prendersi gioco della sua stessa fama, esattamente come fece con quel compagno di carcere a Palermo che, incredulo di trovarsi davanti al vero Antonio Gramsci, lo apostrofò dicendo: «Non può essere. Antonio Gramsci dev’essere un gigante, e non un uomo cosí piccolo». Il galeotto non gli rivolse piú la parola, deluso della distanza tra la proiezione e l’originale. Non saprà mai cosa si è perso.


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