L’Oriente prima della Grecia
I nostri padri? Egizi e semiti
Il primato ellenico viene «costruito» solo a metà Settecento
di Pierluigi Panza (Corriere della Sera, 12.10.2011)
Nel 1987 lo studioso Martin Bernal pubblicò un libro controverso intitolato Black Athena: Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica. Sviluppava due temi: il primo riguarda lo studio dei prelievi culturali dei greci dalle civiltà egiziana e fenicia; il secondo, al quale qui accenniamo (e potrà essere approfondito sui volumi della collana), la costruzione culturale di una Grecia «ariana» come luogo d’origine della civiltà occidentale avvenuta in Europa nella seconda metà del Settecento. A parte l’«afrocentrismo» di Bernal - già criticato da Mary Lefkowitz - resta indubbio che, sino ad allora, i padri delle civiltà e della «prisca sapienza» erano ritenuti gli egiziani e i semiti. Entrambi potevano vantare le più antiche tradizioni culturali e religiose, monumenti identitari diventati archetipi (le piramidi e il tempio di Salomone) e le lingue più vicine agli dei o a Dio: i geroglifici e la lingua ebraica.
Semplificando, dal tardo Umanesimo sino a metà Settecento - quando iniziano le spedizioni degli eruditi a Levante - le grandi tradizioni culturali che si sviluppano nell’Europa colta sono fondate o legate a queste due civiltà. L’esempio più noto è quello fornito da Marsilio Ficino alla corte medicea che interrompe la traduzione di Platone per passare a quelle del Pimander e dell’Asclepius, i testi ermetici (sono compilazioni greche, ma allora ritenute dell’egiziano Ermete Trismegisto) portati in Europa dai sapienti in fuga da Bisanzio conquistata dall’islam. Tra il 1471 e il 1641 si contano 25 edizioni della traduzione ficiniana del 1463.
La pubblicazione della Hieroglyphica di Orapollo nel 1505, e l’analogo testo del Valeriano in 58 libri del 1556, rappresentano i vertici degli indefessi studi dedicati dagli eruditi alla decifrazione della lingua sacra, i geroglifici. Del resto nessuno dubita che gli egizi siano anche gli inventori delle future Belle arti: «Li Egiptii - scrive Leon Battista Alberti nel De re edificatoria - affermano bene anni seimila essere la pittura stata in uso prima che fusse traslata in Grecia».
Ovviamente anche le più magnificenti costruzioni dell’antichità sono in Egitto o nel bacino semitico. Basti pensare alla straordinaria fioritura di libri sulle cosiddette sette meraviglie del mondo tra il Cinque e il Seicento: la maggior parte degli autori che tentano di fissarne il canone le stabilisce a Levante. Sono piramidi, giardini pensili di Babilonia, Tempio di Salomone, Colosso di Rodi... Quando le si individua in Morea, queste fanno spesso riferimento a un’età anteriore a quella della Grecia classica. Le piramidi, poi, danno vita allo sviluppo di una vera e propria disciplina, la piramidografia, tesa a studiare le «esatte dimensioni» di queste architetture misteriose e sacre. Burattini e Graves ritennero di essere riusciti a misurare la grande piramide.
Ma non sono solo le piramidi a interessare gli eruditi, anche il tempio di Salomone. Due gesuiti, Prado e Villalpando, tra il 1596 e il 1604 ne tentano una ricostruzione geometrica sulla base del Libro di Ezechiele. E il tempio di Salomone, come l’Arca dell’Alleanza e quella di Noè diventano gli archetipi di una nuova tradizione artistica, quella salomonica, di cui la costruzione dell’Escorial è il vertice. Tradizione che trova il suo corrispettivo nella Storia naturale nella cosiddetta teoria mosaica dello sviluppo della terra (alla quale l’epistemologo Paolo Rossi ha dedicato insigni studi).
Non c’è Wunderkammer nel Sei-Settecento che non ambisca ad esporre rarità di naturalia o artificialia provenienti dall’Oriente o dall’Africa, dai coccodrilli del Nilo ai coralli, dai corni di rinoceronte ai mattoni della torre o delle mura di Babele. Li esibisce il più grande erudito dei Seicento, il gesuita Athanasius Kircher nel suo museo al collegio romano, tra decine di obelischi in legno, modellini di quelli che, negli stessi secoli, venivano innalzati a Roma. Uno anche in piazza San Pietro dall’architetto Domenico Fontana: un’impresa talmente eroica da scriverne un libro nel 1590.
Tutto questo cambiò dalla metà del Settecento sulla base di molteplici spinte, da quelle accademiche (nei paesi tedeschi) a quelle politiche a quelle nate sulla spinta delle prime misurazioni dei monumenti greci di Stuart e Revett nel 1764, anno in cui Winckelmann pubblicò la bibbia della rinascita greca nell’arte, la Geschichte, ovvero la Storia dell’arte nell’antichità. La Francia colta, da monsignor Mariette sino agli accademici Beaux arts, contribuirà alla costruzione del mito greco mandando in soffitta i grandi repertori sulle antichità di Caylus e Montfauçon, troppo aderenti all’antico modello.
La sconfitta di Napoleone in Egitto - nonostante il colossale sforzo documentativo della Description de l’Egypte - contribuirà ulteriormente allo spostamento d’interesse. La «liberazione» della Grecia dal giogo turco favorirà la costruzione di una idea diversa del Levante, che diventerà, per gli orientalisti europei, il luogo dell’esotico, del pittoresco e del mistero. Mentre la Grecia liberata dagli ellenisti europei, come Byron, la culla della nostra civiltà.
Un corpo di spedizione francese, in accordo con le altre due potenze (Inghilterra e Russia), invierà nell’agosto del 1828 una spedizione di studiosi, guidata da Bory de Saint-Vincent, per documentare tutte le caratteristiche della Grecia (Expédition scientifique de Morée, Parigi, 1831-1835, tre volumi). Abel Blout, che ne cura la parte relativa ai monumenti, si esalta nel «portare la civiltà» in Grecia, scrive, «patria» di quell’Europa rinnovata dalla rivoluzione del 1789. Il suo era un ideale di libertà da «esportare», nato con i libri di Volnay ed elaborato dall’ambasciatore Forbin. E vivo ancora oggi! Basta sostituire la parola libertà con democrazia.