Inviare un messaggio

In risposta a:
Cultura

VATTIMO-RORTY E IL DIO CRISTIANO. Il futuro della religione, due filosofi dialogano sul destino della fede - di Umberto Galimberti.

lunedì 30 maggio 2005 di Emiliano Morrone
[...] Vattimo dice che “La religione non è morta. Dio è ancora in circolazione”, ma quale religione, quale Dio? La religione cristiana e il Dio cristiano naturalmente, ma depurati l’una e l’altro da quello spessore metafisico che non il Cristianesimo, ma l’ontologia greca ha attribuito a Dio, conferendogli una sostanza e una realtà, al di là di tutte le possibili interpretazioni, da cui discende una verità assoluta che nessuna opinione umana può mettere in discussione. Questo (...)

In risposta a:

> VATTIMO-RORTY E IL DIO CRISTIANO. Il futuro della religione, due filosofi dialogano sul destino della fede - di Umberto Galimberti.

giovedì 14 giugno 2007

La pragmatica di un liberale ironico

La scomparsa di Richard Rorty. Protagonista della scena intellettuale statunitense, ha considerato la filosofia una conversazione poco impegnativa e d’intrattenimento

di Stefano Petrucciani (il manifesto, 12.06.2007)

Se si volesse caratterizzare in poche battute la posizione di Richard Rorty nella filosofia del Novecento, si potrebbe dire che Rorty è stato il pensatore con il quale si è pienamente dispiegata la crisi interna della filosofia analitica e la transizione al postmodernismo. Rorty infatti, che era nato a New York nel 1931 ed è scomparso l’8 giugno, si era formato proprio all’interno della filosofia analitica nordamericana, ma aveva cominciato molto presto a metterne in luce le difficoltà e le aporie.

Il grande risultato di questo lavoro autocritico, con il quale Rorty si afferma come un protagonista sulla scena intellettuale, è il libro del 1979 La filosofia e lo specchio della natura. In quest’opera ambiziosa il pensatore americano demolisce tutta la concezione tradizionale della filosofia, dalla quale anche la corrente analitica, con le sue pretese di rigore, non si era affrancata. Mette sotto accusa le pretese della filosofia di costruire un sapere argomentativo e fondazionale; esorta il filosofo ad abbandonare il ruolo di «giudice» della validità dei saperi e delle scienze (Kant aveva parlato del «tribunale» della ragion pura di fronte al quale le pretese di validità dovevano essere difese); e soprattutto rifiuta quella concezione speculare o rappresentativa della conoscenza secondo la quale questa deve sforzarsi di rappresentare nel modo più adeguato possibile il mondo reale che sta «là fuori», come se non avesse altro modello che quello dello «specchio», che restituisce pura e netta la verità di ciò che gli si para davanti. Per Rorty non c’è niente di più falso. Dopo la «svolta linguistica» (di cui egli era stato sostenitore) è per lui acquisito che non ci sono oggetti reali, ma tutt’al più interpretazioni e sistemi simbolici: il terreno del filosofo sono le nostre contingenti pratiche discorsive, nelle quali egli deve calarsi senza pretese di superiorità e, soprattutto, liberandosi dall’ansia nevrotica di ricercare solide certezze e argomenti ben fondati.

Nel volume Conseguenze del pragmatismo (un libro dell’82 che in Italia è tradotto nell’86), Rorty sviluppa in positivo la sua prospettiva neopragmatista, storicista ed ermeneutica, e ne traccia anche la genealogia nel pensiero dell’Otto e Novecento. I suoi punti di riferimento sono nell’Ottocento Hegel, ma poi soprattutto Dewey, Wittgenstein e Heidegger, che ciascuno a suo modo hanno dissolto i quadri tradizionali del sapere. Egli li usa (stravolgendoli completamente, a mio modo di vedere) per portare acqua al suo mulino, e cioè per metter capo ad una visione della filosofia «post-filosofica» e «post-argomentativa»: la pratica filosofica diventa una specie di conversazione tutta interna allo spirito del tempo, dove, come scrive lo stesso Rorty, si «passa rapidamente da Hemingway a Proust a Hitler a Marx a Foucault», intrattenendosi su «vantaggi e svantaggi dei diversi modi di parlare inventati dagli uomini». Un filosofia, insomma, poco impegnativa e di intrattenimento, che Rorty svilupperà ed espliciterà ancora nel libro dell’89 Contingenza, ironia e solidarietà.

Coerentemente con queste premesse filosofiche, Rorty si viene caratterizzando sul piano politico come un «liberale ironico», che sposa i principi tradizionali della democrazia americana, quelli di libertà e di eguaglianza, ma insiste al tempo stesso sulla loro contingenza. La sua tesi è che bisogna battersi a favore di essi, pur restando consapevoli che si tratta di principi elaborati da una tribù particolare (quella appunto dei maschi, bianchi, liberali, occidentali) e che perciò non hanno nessuna pretesa di verità e non possono essere in alcun modo fondati. Contro la filosofia politica di eccessive ambizioni, Rorty difende quello che chiama il «primato della democrazia sulla filosofia» e, accentuando sempre più i suoi interessi politici, non manca di proporre i suoi buoni consigli alla sinistra nel libro Una sinistra per il prossimo secolo (pubblicato da Garzanti nel 1999), e di muovere critiche severe alla presidenza Bush e alla guerra in Iraq.

In fondo, Rorty è stato certamente un filosofo rappresentativo della vicenda intellettuale che si è consumata tra la fine degli anni Settanta e oggi: la sua critica della filosofia fondativa, delle sue pretese di rigore e di scientificità, che negli anni Settanta poteva ancora fare scalpore, è diventata un luogo comune; per non parlare dei grandi progetti della sinistra, che sono morti e sepolti molto più di quanto non si sarebbero augurati i loro critici postmoderni. Ma anche se i filosofi del tipo di Rorty hanno avuto ragione su tutta la linea, ciò non vuol dire che i conti, alla fine, tornino. Non tornano dal punto di vista politico, perché un pensiero liberal, peraltro molto estenuato, non sembra davvero in grado di offrire prospettive a una sinistra le cui malattie sono troppo gravi per poter essere curate con questi rimedi. Ma ancora di meno i conti tornano da un punto di vista filosofico. Adduco solo due ragioni molto semplici, che però a me sembrano inoppugnabili. Primo: da Platone se non da prima, lo sforzo e il fascino della filosofia è consistito nel tentativo di produrre buone argomentazioni: argomentazioni contro la sfida scettica, ragionamenti sulla giustizia, sul buon ordine della polis, su come vivere bene... ma pur sempre argomentazioni. Se l’argomentazione non piace, ci sono altri linguaggi, molto più suggestivi: la poesia, l’arte, la religione. Ma una filosofia senza argomentazioni è una filosofia privata di se stessa, inutile. Allora, molto meglio lasciar perdere.

In secondo luogo, però, la rinuncia all’argomentazione implica un’altra e inquietante conseguenza. Chi argomenta, chi cerca di formulare un ragionamento rigoroso, si espone alla critica: lo si potrà sempre inchiodare alla sua incoerenza o alle sue fallacie. In questo senso, l’argomentazione è democratica: se il tuo argomento sia buono o no, ognuno lo può giudicare. La filosofia come la intende Rorty, come conversazione, invece, è incriticabile: dice lei stessa che non ha pretesa di verità; dunque, con chi te la vuoi prendere? Ecco perché i conti della filosofia post-moderna, che Rorty ci ha raccontato così bene, sono, alla fine, truccati: sembra che ci sia il massimo di apertura, che tutto possa andar bene, che si rinunci ad ogni pensiero fondativo e autoritario. Ma in realtà si costruisce un castello intellettuale dove non resta neanche il più piccolo spazio per la critica.


Questo forum è moderato a priori: il tuo contributo apparirà solo dopo essere stato approvato da un amministratore del sito.

Titolo:

Testo del messaggio:
(Per creare dei paragrafi separati, lascia semplicemente delle linee vuote)

Link ipertestuale (opzionale)
(Se il tuo messaggio si riferisce ad un articolo pubblicato sul Web o ad una pagina contenente maggiori informazioni, indica di seguito il titolo della pagina ed il suo indirizzo URL.)
Titolo:

URL:

Chi sei? (opzionale)
Nome (o pseudonimo):

Indirizzo email: