Novecento . Un saggio sulla «Difesa della razza» e sulle discussioni che la rivista suscitò nella cultura del regime
E il fascismo arruolò Dante e Leopardi per colpire gli ebrei
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 30.12.2008)
Uno dei falsi più eclatanti fu l’arruolamento di Giacomo Leopardi come «poeta protofascista», addirittura precursore del mito ariano. Si leggeva anche questo sulla rivista La Difesa della razza: fuMassimo Lelj, bizzarra figura di ex anarchico convertito alla fede littoria, grande cultore della filosofia di Vico, a pubblicare un’antologia di pensieri tratti dallo Zibaldone, scelti e commentati con perizia manipolativa in modo da presentare l’autore come un accanito nazionalista. E lo stesso Lelj non esitò ad arruolare anche Dante: di lui scriveva che, adottando la lingua volgare, ci aveva mostrato «il volto della razza».
D’altronde tutta la carriera di Telesio Interlandi, direttore del famigerato quindicinale, è segnata da un sistematico asservimento della cultura, di cui il giornalista siciliano non era affatto sprovvisto, alle esigenze politiche. Non a caso le sue creature, a partire dal quotidiano Il Tevere (fondato nel 1924), furono sempre generosamente foraggiate dal potere. Lo storico Francesco Cassata, nell’ampio e approfondito saggio «La Difesa della razza» (Einaudi), presenta Interlandi come un «estremista di regime», un ringhioso mastino antisemita che per diverso tempo Benito Mussolini tenne al guinzaglio, per poi scatenarlo al momento di varare le leggi razziali, affidandogli uno strumento apposito per colpire con violenza inaudita le vittime designate.
Non bisogna credere però, nota Cassata, che La Difesa della razza, con i testi e le immagini aberranti di cui il volume fornisce copiosi esempi, fosse l’unica (e magari isolata) espressione del razzismo fascista. Al contrario, proprio l’attenta ricostruzione delle polemiche suscitate dalla rivista dimostra che l’antisemitismo circolava abbondantemente negli ambienti intellettuali legati al regime. Per esempio il padre del futurismo Filippo Tommaso Marinetti respingeva con sdegno gli attacchi di Interlandi all’arte moderna quale «adulterazione ebraica del gusto italiano», ma solo per sostenere che gli ebrei non erano dotati di alcuna creatività artistica e quindi appariva assurdo attribuire a loro le realizzazioni delle correnti d’avanguardia.
Inoltre Cassata documenta quanto possa essere fuorviante una distinzione rigida tra il razzismo biologico e quello spirituale. È vero che il filosofo tradizionalista Julius Evola fustigava ogni visione «zoologica » e «scientista», a suo avviso subalterna agli «idoli del positivismo ottocentesco», richiamandosi al valore preminente dello spirito. E dalle colonne della Difesa della razza gli replicava, per una curiosa combinazione, un futuro strenuo avversario degli evoliani nel Msi, Giorgio Almirante, che esaltava invece il razzismo «del sangue, della carne e dei muscoli». Ma a ben vedere Evola non rigettava affatto la discriminazione su base biologica, semmai intendeva integrarla e affinarla su un più sofisticato piano etico, per definire una concezione «totalitaria » della razza atta a smascherare gli individui che «pur non essendo proprio ebrei nel sangue, lo sono decisamente nel modo d’essere e nel carattere».
Al tempo stesso, Interlandi e i suoi collaboratori non si accontentavano certo di bersagliare ebrei, neri e meticci, magari raffigurandoli in forma di animali repellenti (rettili, ragni, topi, avvoltoi). La Difesa della razza era anzi ossessionata dalle influenze giudaiche occulte, temute come un gravissimo fattore d’inquinamento della nazione. Pullulavano quindi sulle sue pagine, come su quelle del Tevere e dell’altra rivista interlandiana, Quadrivio, le invettive rivolte alla «gente falso-ariana, indelebilmente circoncisa, anziché sul prepuzio, nella malata profondità dello spirito». L’intera borghesia italiana, per il fascismo razzista intransigente, era sospetta di coltivare abitudini contaminate dalla mentalità ebraica.
Insomma, sottolinea Cassata, La Difesa della razza e i suoi critici spiritualisti, compresi quelli di fede cattolica come Nicola Pende e Giacomo Acerbo, concorsero a produrre un sincretismo razzista nel quale i confini tra biologia e cultura tendevano a sfumare. L’importante non era la coerenza teorica, ma lo sforzo di plasmare un «italiano nuovo », depurato da qualsiasi influsso allogeno e prono alle direttive del regime. Perciò il motivo razziale va considerato parte integrante della «rivoluzione antropologica» perseguita dal fascismo. Il «culmine logico, seppure estremo», come scrive Cassata, del programma di Mussolini. Non certo una fatale deviazione dovuta alla scelta politica di allearsi con il Terzo Reich.
Ideologie Teorie pseudoscientifiche, populismo, fondamentalismo religioso, xenofobia
Tutti i pregiudizi che alimentano l’antisemitismo
di A. Car. (Corriere della Sera, 30.12.2008)
Morbo niente affatto debellato, l’antisemitismo continua ad attirare l’interesse degli studiosi. Lungi dal costituire «una teoria ideologica precisamente strutturata», osserva lo storico Simon Levis Sullam nel saggio L’archivio antiebraico (Laterza, pp. 101, € 14), esso si presenta come un groviglio retorico in cui confluiscono elementi della più varia natura (stereotipi xenofobi, pregiudizi religiosi, suggestioni anticapitaliste e populiste), che si combinano di volta in volta in forme diverse. Una rassegna ampia e articolata di come il problema si è posto in Italia (con interessanti incursioni altrove, dalla Gran Bretagna alla Romania) si trova nel volume L’intellettuale antisemita (Marsilio, pp. 229, € 20), curato da Roberto Chiarini e aperto da una prefazione di Stefano Folli. Il libro raccoglie gli atti di un convegno organizzato a Salò dal Centro studi sulla Rsi, con un confronto serrato fra studiosi di vario orientamento (da Giovanni Belardelli a Francesco Germinario, da Alberto Cavaglion a Renato Moro) sulle origini, la natura e le conseguenze dell’antisemitismo fascista.
Sposta invece l’obiettivo dai persecutori alle vittime, soffermandosi sul nodo della memoria, lo studio di Raffaella Di Castro Testimoni del non-provato (Carocci, pp. 327, € 26): un’inchiesta sulla difficile condizione psicologica e morale di coloro che, come l’autrice, hanno avuto la ventura di ascoltare testimonianze dirette dei propri cari sulla Shoah. Da segnalare infine il numero speciale dedicato al settantesimo delle leggi razziali dalla rivista Ventunesimo Secolo, edita da Rubbettino.