MILANO IN TERRA SANTA
Festa e «lectio» ieri a Betlemme:ben 1.300 pellegrini della Chiesa di Ambrogio hanno abbracciato il loro arcivescovo emerito
Martini: «La verità parli con la nostra vita»
Il porporato biblista: «Non credo al dialogo astratto tra le religioni ma all’incontro fra le persone»
Dal Nostro Inviato A Betlemme - Giorgio Bernardelli (Avvenire, 16.02.2007)
La verità del cristiano? Non è calata dall’alto ma è la verità della nostra esperienza di persone; e chi ci ascolta deve poterlo capire. «È il grande dono per il quale prego, anche per la Chiesa italiana». Non è stata solo una grande rimpatriata l’incontro di ieri sera a Betlemme tra i 1.300 pellegrini milanesi e il loro arcivescovo emerito, il cardinale Carlo Maria Martini. Incontro festoso, all’insegna degli 80 anni compiuti il mese scorso. Ma incontro - come sempre col porporato che per 22 anni ha guidato la Chiesa di Milano - con la Parola di Dio al centro. Allora anche il commento alle letture della Messa di Natale, celebrata a pochi passi dal luogo che ne fa memoria, diventa l’occasione per affrontare quello che Martini definisce «un grande compito» per il cristiano d’oggi.
Il punto di partenza è un passo della lettera di san Paolo a Tito: «La grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo». Il porporato biblista sottolinea la «laicità» di quelle parole, nelle quali ogni uomo può riconoscersi. E ne trae l’indicazione di uno stile per il cristiano: bisogna che impariamo sempre di più a parlare «secondo la verità della nostra esperienza, così che ogni persona si senta toccata da questa stessa verità». Questo è il vero dialogo. E non tanto il dialogo astratto tra le religioni («non ci credo molto - confessa - perché ciascuna religione resta sempre un po’ incasellata nel proprio schema»). Il dialogo «è tra gli uomini; religiosi o non religiosi, credenti o non credenti». Il dialogo è vero quando «raggiunge quel livello di verità delle parole che vale per tutti. Quando ciascuno si sente coinvolto, chiamato, si sente parte di una responsabilità comune. Questo - aggiunge Martini - è un grande compito per il quale io prego. Che ci sia dato anche come Chiesa italiana di dire delle cose che la gente capisce, di cui sente la rilevanza. Che non rimangano come un comando dall’alto che bisogna accettare, ma siano avvertite come qualcosa che ha una ragione che la sorregge. Per questo io prego molto».
Più tardi, conversando coi giornalisti su questa parte dell’omelia, il cardinale spiegherà che non va dimenticato anche il resto del brano della lettera a Tito, cioè il riferimento all’attesa della manifestazione della gloria del Signore. «Si tratta - ha riassunto - di ascoltare la gente, lasciando rimbalzare questa voce nel nostro cuore e cercando di illuminarla con la parola del Vangelo. Non con parole strane, ma in una maniera che tutti possano intendere». Ma c’è una difficoltà della Chiesa, oggi, a rapportarsi con la modernità?. «Non saprei - risponde l’arcivescovo emerito di Milano -. La modernità non è una cosa astratta, ci siamo dentro tutti. Si tratta di lasciar risuonare le parole degli altri dentro di sé e valutarle alla luce del Vangelo. Questo è il cammino. Poi non voglio giudicare quali siano i risultati. Quando sono venuto qui a Gerusalemme mi sono posto l’impegno a osservare rigorosamente quanto scritto in Matteo 7, versetto 1: non giudicate e non sarete giudicati...».
Ma in che cosa consiste questa «verità della nostra esperienza»? Alcune indicazioni Martini le aveva offerte già nell’omelia: «Il Vangelo della Natività ci parla di gioia, di luce, di esultanza. Noi invece siamo sempre portati a rimandare queste cose. Diciamo: oggi ci sono tanti problemi, tante sofferenze, verrà un tempo migliore. La Scrittura invece non parla così. Leggevo ieri una pagina che dice: operiamo il bene perché i tempi sono cattivi. Noi diremmo il contrario. Invece dobbiamo vivere la gioia, la serenità, la pace, qualunque siano le circostanze in cui viviamo. Non vuol dire passare sopra le sofferenze, ma entrare più a fondo e vedere come non c’è proporzione tra il dolore di questo mondo e la gloria che ci è preparata».
E l’esperienza personale dell’arcivescovo emerito che, giunto a quest’età, racconta di sentir si «un po’ come sulla lista di attesa». «Guardo ai miei ottant’anni con molta fiducia e con molta pace perché confido nella misericordia di Dio e so che il Signore è più grande del nostro cuore. E vorrei che ciascuno potesse guardare alla propria vita con questa serenità. Curando sì le proprie ferite, le proprie fragilità, ma con una visione ottimista. Ce n’è tanto bisogno nella nostra società. Ma vale anche per le nostre comunità parrocchiali, che troppo spesso si lamentano e rimangono un po’ imprigionate in questo tipo di atteggiamento. Il Signore vuole che guardiamo alla nostra vita, qualunque essa sia, con gratitudine. Scrutando le vie che si aprono sempre davanti a noi». Forse il vero dialogo può partire proprio da qui.
Sul tema, nel sito, si cfr. anche il discorso di Tettamanzi a Verona: