LA STORIA
Il bluff del codice Provenzano
Niente messaggi cifrati, il boss citava la Bibbia per sembrare colto
di FRANCESCO LA LICATA *
ROMA.Non esiste un codice segreto, il cosiddetto «Codice Provenzano», che - dietro nobili parole rubate alla Bibbia o ad altri Testi sacri - nasconda un cifrario assassino capace di impartire ordini all’intera organizzazione. Don Binu, dunque, non è quel gran sacerdote amanuense, un po’ ispirato, ascetico e parco fino a nutrirsi di miele e cicoria. No, il padrino - stando alle conclusioni cui sono giunti i tanti esperti chiamati ad «indagare» le bibbie sequestrate all’attempato capomafia - è solo un contadino descolarizzato che fa ricorso alla prosa del Vecchio Testamento per apprendere l’arte del carisma e imparare parole che lo facciano apparire al suo «popolo» un distillato di saggezza.
La favola del «Codice Provenzano» era nata quando a Montagna dei Cavalli, nel nascondiglio dove viveva in clandestinità il padrino, furono trovati i famigerati «pizzini», infarciti di abbondanti citazioni bibliche, e un numero esagerato (quattro o cinque) di «Libri» (cioè Bibbie) pieni di contrassegni, annotazioni e segni definiti criptici. L’equivoco fu alimentato anche dalla confusione di termini adoperati per descrivere il «sistema» con cui il boss regolava i suoi rapporti epistolari con l’esterno, e il cifrario numerico che copriva l’identità dei numerosi destinatari della sua fitta corrispondenza.
Certo, esistono un sistema e un codice Provenzano (correttamente illustrati in un buon libro scritto dal giornalista Salvo Palazzolo e dal magistrato Michele Prestipino) che riguardano le regole di Cosa nostra, ma non si tratta di nulla di criptato attraverso i versetti della Bibbia. Eppure per più di un anno i «Libri» sequestrati a Provenzano sono stati oggetto di studio di specialisti sparsi per il mondo: il Servizio centrale operativo della Polizia di Roma, un coltissimo sacerdote esperto di Testi sacri che vive in un convento di Ascoli e l’ufficio del Fbi di Washington. Dopo mesi e mesi sono arrivati i primi due responsi, quello dello Sco di Roma e una lapidaria conferma al lavoro della polizia italiana, affidata al portavoce del Fbi, Stephen Kodak, che - condividendo lo scetticismo italiano - afferma: «E’ corretto dire che non esiste alcun codice». Parola di esperti capaci di strappare, se ve ne sono, segreti protetti da collaudatissimi codici terroristici.
La spiegazione dell’atteggiamento negazionistico del Fbi arriverà quando gli americani ufficializzeranno con un rapporto. Per il momento bisogna fare riferimento all’analisi del Servizio centrale operativo di Roma. Il senso della conclusione, trasmessa alla magistratura, è che appare difficile l’esistenza di una chiave segreta nel mare di «pizzini» che spesso tradiscono la consegna della riservatezza, indicando alcuni personaggi con nome e cognome. L’unica cosa che somigli a un codice, dicono gli esperti, «è quella che vede i nomi degli appartenenti all’organizzazione, ma non tutti e non sempre, sostituiti da sigle numeriche». Spesso, invece, «i corrispondenti di Provenzano ricorrono a giri di parole (facilmente intellegibili ndr) quello che si chiama come il tuo paesano, usano iniziali, nomi di battesimo o appellativi (l’irresponsabile)». L’attribuzione di ciascuna sigla, inoltre, non sembra patrimonio dell’intera organizzazione, e lo stesso Provenzano - scrivono gli esperti - «è costretto a scriversi veri e propri promemoria» per non confondersi. Il ricorso alla numerazione