Prima lezione di democrazia
Dalle regole alla partecipazione cosa vuol dire essere cittadini
Nel suo saggio l’ex magistrato spiega l’importanza dell’impegno. Altrimenti i governi diventano oligarchie
Le funzioni non si esauriscono nell’esercitare o meno il proprio diritto di voto
di Gherardo Colombo (la Repubblica, 19.09.2011)
La democrazia presuppone una precisa considerazione degli esseri umani e delle caratteristiche delle relazioni che tra loro intercorrono. La democrazia non è uno strumento compatibile con gli atteggiamenti infantili, e se non si tiene conto della fatica che la crescita personale comporta per superare tali atteggiamenti non si può arrivare a capirla (...).
Il popolo governa agendo. E siccome il popolo non esiste se non esistono le persone che lo compongono, il popolo governa se agiscono le persone di cui è costituito. Si è considerata la forma, si è vista la sostanza. Si è tratteggiato, cioè, lo schema di regole e di contenuti che servono perché possa funzionare la democrazia. Tutto questo, però, ancora non basta: crea i presupposti perché il popolo governi, ma affinché si realizzi la democrazia è necessario che il popolo, nell’ambito delle regole, effettivamente governi. Una citazione aiuta a comprendere meglio la questione.
L’articolo 1 della Costituzione italiana afferma nel primo paragrafo che «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». L’espressione è interpretata storicamente attribuendo alla parola «lavoro» il significato corrente di attività produttiva. Il lavoro quindi fonda la Repubblica democratica perché è lo strumento attraverso il quale la persona si realizza, è il mezzo per l’emancipazione personale e per la promozione della società. Una lettura in chiave diversa aiuterebbe a capire cosa intendo: l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro in quanto i cittadini lavorano, e cioè si impegnano, perché sia una Repubblica e una democrazia. È necessario che i cittadini agiscano per compiere la democrazia, perché questa possa attuarsi. In caso contrario, e cioè se tutti loro, o gran parte di loro, rimanessero inerti, evidentemente non governerebbero, e la democrazia si trasformerebbe necessariamente in monarchia o in oligarchia (perché governerebbero soltanto gli attivi, che potrebbero essere ipoteticamente soltanto uno o estremamente pochi). La trasformazione si verificherebbe di fatto, senza necessità di cambiare nemmeno una legge.
Così come la monarchia si trasformerebbe in oligarchia se il sovrano assoluto si disinteressasse completamente di svolgere le sue funzioni e gli subentrasse, di fatto, la corte. Allo stesso modo governerebbe, per esempio, il solo presidente del Consiglio dei ministri, se tutti i ministri e il Parlamento tralasciassero in concreto (pur conservandole apparentemente) le loro funzioni e il popolo si limitasse a esprimere con indifferenza il proprio voto alle scadenze elettorali, o magari a omettere, per una parte consistente dei suoi membri, persino quello. Non si tratta, però, soltanto di questioni di remissività da parte delle istituzioni nei confronti di una sola o di poche persone, che assumerebbero così il potere spettante ad altre sedi; non si tratta soltanto dell’esercitare o meno il diritto di voto. Il problema riguarda più in generale l’abdicazione del popolo a governare.
Per comprendere come il comportamento delle persone che compongono il popolo incida sull’attuazione della democrazia si può paragonare la società a una famiglia. Le persone che compongono la famiglia compiono di continuo azioni che riguardano se stesse individualmente e azioni che riguardano la famiglia nel suo complesso. Azioni generalmente programmate, dall’ora del risveglio passando per le varie faccende quotidiane fino al momento di coricarsi.
La programmazione individuale riguardante le proprie sfere di competenza incide non soltanto sulla vita di chi l’ha fatta, ma anche su quella degli altri: alzarsi alle dieci e arrivare regolarmente tardi al lavoro comporta il rischio di essere licenziato, presentarsi sempre tardi a scuola quello di non essere promosso, e il licenziamento e la bocciatura si rifletterebbero sull’intera famiglia. Altri aspetti organizzativi riguardano la famiglia nel suo complesso: fare la spesa, riordinare la casa, decidere gli acquisti e i viaggi, e così via. Dalla programmazione complessiva e dalla attuazione della programmazione risulta la qualità della vita del la famiglia, e cioè dei suoi membri.
Nella famiglia patriarcale la programmazione, anche delle sfere più personali, era riservata al padre (il monarca), che poteva delegare (magari tacitamente e per tradizione) le parti più ripetitive e meno qualificanti alla moglie, spettando per tutto il resto a questa e ai figli il compito di eseguire, cioè di comportarsi secondo le disposizioni ricevute. Ora, in una famiglia attuale gli indirizzi sono decisi concordemente dai coniugi: il Codice civile italiano, articolo 144, stabilisce che «I coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare»; ma anche i figli partecipano alle decisioni che li riguardano, quando siano abbastanza grandi per farlo. Salvo che uno dei coniugi (o i figli, per quel che compete loro) si disinteressi, lasci fare, non partecipi, nel qual caso gli indirizzi, le decisioni sono presi dall’unica persona che si impegna a farlo. È questa persona che decide cosa comperare facendo la spesa, dove andare in vacanza e così via, e gli altri si adeguano. Non decidono, ma subiscono la decisione altrui.
Quel che succede in famiglia succede nella società: nella democrazia le regole prevedono la possibilità di contribuire all’indirizzo della vita propria e di quella della collettività, ma se la possibilità non è usata, se manca cioè l’impegno, la democrazia svanisce. Non sono sufficienti le regole, perché le regole consentono di partecipare al governo: se manca l’impegno, la partecipazione, il governo va ad altri.
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