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"Risus Paschalis"(M. C, Jacobelli) e "Amore più forte di Morte"(Cantico dei cantici: 8.6, trad. G. Garbini)!!!

QUESTIONE ANTROPOLOGICA. E’ lecito e ancora possibile affermare una verità universale sul genere umano? "J’accuse" di René Girard. L’incomprensione della lezione di Freud (Marx e Nietzsche) lo spinge ad un’apologia del cattolicesimo costantiniano e dell’ideologia "papa ratzi-stica"!!! Il cristianesimo non è un cattolicismo!!! - a cura di Federico La Sala

martedì 20 marzo 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] Secondo Girard, oggi stiamo perdendo di vista anche un’altra funzione antropologica, quella del matrimonio. “Una istituzione precristiana e valorizzata dal cristianesimo. Il matrimonio è l’indispensabile organizzazione della vita, legata alla richiesta umana di immortalità. Creando una famiglia, è come se l’uomo perseguisse l’imitazione della vita eterna. Ci sono stati luoghi e civiltà in cui l’omosessualità era tollerata, ma nessuna società l’ha messa sullo stesso piano (...)

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> QUESTIONE ANTROPOLOGICA. --- Addio a René Girard, denunciò l’origine violenta della società. Rilesse i miti fondando la teoria del capro espiatorio.

venerdì 6 novembre 2015

Addio a René Girard, denunciò l’origine violenta della società

Antropologo e filosofo, accademico di Francia, ha insegnato negli Stati Uniti

di Massimiliano Panarari (La Stampa, 6.11.2015)

Ultranovantenne, si è spento René Girard, e con lui se ne va un’altra figura centrale delle scienze sociali del Secolo breve. Nonché uno di quegli intellettuali francesi che hanno dominato il dibattito culturale del secondo Novecento, portando nelle università statunitensi le teorie e le metodologie dello strutturalismo (e del post-strutturalismo), re-impacchettate Oltreoceano con l’etichetta di French Theory. Nato ad Avignone il giorno di Natale del 1923, fece - nemo propheta in patria - una carriera accademica quasi tutta a stelle strisce, tra Duke University, Johns Hopkins e Stanford, fino ad ascendere infine, nel 2005, al ristrettissimo «club» (un autentico Olimpo) degli «immortali» dell’Académie française.

Girard, che aveva esordito come archivista-paleografo, è stato un pensatore eclettico ed estremamente influente, in grado di attraversare gli steccati disciplinari nello sforzo di fondare un’antropologia volta all’interpretazione generale e «razionalistica» dei comportamenti dell’umanità, mettendo insieme critica letteraria, psicologia, etnologia e studio delle religioni. Ed è proprio il fenomeno religioso, letto sulla scorta di Durkheim e di Freud (che tanto hanno pesato sulla sua formazione, ma dai quali poi si separò, diventando altresì l’antagonista di Claude Lévi-Strauss), a risultare al centro delle sue riflessioni, che muovono dall’intuizione del desiderio mimetico e «triangolare», esplicitata nel libro seminale del 1961 Menzogna romantica e verità romanzesca.

Il desiderio si rivela appunto «triangolare» dal momento che tra il soggetto desiderante e l’oggetto desiderato si colloca un mediatore - il modello - che indica gli oggetti verso cui indirizzarlo. Ma è anche, piuttosto di frequente, un rivale; e Girard approda così all’altra idea fondamentale, quella della rivalità mimetica, tra capro espiatorio e cristianesimo (al quale si converte) che fa saltare la struttura omicidiaria delle società antiche con il paradigma della vittima innocente (Gesù Cristo).

«Intellettualmente» cristiano (poiché il sacro e le istituzioni religiose assicurano la coesione della società) e, al tempo stesso, «Darwin delle scienze umane», come lo celebra la «sua» Università di Stanford; se difatti la teoria della selezione naturale delle specie costituisce il fondamento razionale per la comprensione della varietà delle forme di vita, col meccanismo vittimario lo studioso francese ha inteso offrire il principio esplicativo razionale e unitario della pluralissima diversità delle forme sociali e culturali dell’umanità.

Il «girardismo» (ipotesi non suscettibile di verifica empirica a causa dei tempi lunghissimi, precisamente come il darwinismo) rappresenta dunque, per molti versi, un’estensione della biologia al dominio sociale, che ha peraltro trovato un insperato e insospettabile sostegno nella scoperta scientifica dei neuroni specchio. E Girard, per rimanere nel grande regno della natura (citando un suo editore italiano, Roberto Calasso, che citava a sua volta Isaiah Berlin), è stato uno degli ultimi «porcospini» che sanno, impareggiabilmente, «una sola grande cosa». A giorni uscirà Il tragico e la pietà (Edizioni Dehoniane, Bologna), il suo libro con un altro «grande di Francia», Michel Serres.


Addio René Girard, l’ultimo degli umanisti

È morto a 91 anni lo studioso che rilesse i miti fondando la teoria del capro espiatorio

di Roberto Esposito (la Repubblica, 6.11.2015)

Che René Girard sia stato uno dei pensatori più profondi e originali del nostro tempo è un’evidenza innegabile. Spostatosi dalla Francia in America, insegnando a lungo nelle università John Hopkins e Stanford, dove è morto mercoledì a 91 anni, ha attraversato tutti campi del sapere umanistico, dalla critica letteraria all’antropologia, alla filosofia, influenzando anche gli studi di psicoanalisi e l’esegesi biblica. S

i può dire che la sua possente energia ermeneutica scaturisca, come un fascio di luce intensa e penetrante, da una intuizione originaria, continuamente rielaborata attraverso l’analisi dei testi più vari, capace di fornire una interpretazione unitaria dell’intera esperienza umana. Si tratta di qualcosa da sempre sotto gli occhi di tutti, ma, come spesso accade, proprio per questo rimasta a lungo celata, che Girard riconduce al carattere mimetico del desiderio.

Come fin dalla sua prima grande opera, Menzogna romantica e verità romanzesca (Bompiani 1965), egli riconosce nei romanzi di Stendhal e di Flaubert, di Proust e di Dostoevskji, che il desiderio ha una struttura non binaria, ma triangolare. Diversamente da quanto pensava Freud - che pure, con Lévi-Strauss e a Durkheim, è stato forse l’autore che lo ha più influenzato - Girard ritiene che il desiderio umano non sia rivolto direttamente al proprio oggetto, ma passi per la mediazione di un terzo termine, costituto dal desiderio dell’altro. Come si desume anche dall’esperienza comune, tanto più nella società dei consumi, noi desideriamo quello che gli altri desiderano e precisamente per questo motivo.

Ciò significa che la società è naturalmente preda di una violenza insostenibile, la quale può essere fronteggiata solo da un potente dispositivo immunitario, che Girard individua nel sacrificio vittimario di un capro espiatorio. Tutti contro uno, uno al posto di tutti. La violenza, concentrata su un’unica vittima, mette in salvo l’intera comunità, proteggendola dalla sua naturale tendenza all’autodistruzione.

Secondo quanto l’autore teorizza nel suo libro più conosciuto, La violenza e il sacro (Adelphi 1980), la vittima, scelta per le sue caratteristiche somatiche, e magari anche razziali, insieme catalizza la crisi e restaura la pace, acquisendo così uno statuto sacrale. Per millenni la civiltà si è riprodotta attraverso la ripetizione di quest’evento sacrificale, raccontato da tutti i grandi miti - naturalmente dal punto di vista dei persecutori. Come ancora nel cuore del Novecento hanno ripetuto i nazisti, assumendo a vittima sacrificale un intero popolo, solo la sua distruzione avrebbe sanato il mondo da una malattia mortale. Ma in questa storia di sangue Girard individua una svolta decisiva nel Cristianesimo.

I Vangeli raccontano un mito sacrificale in apparenza non diverso dagli altri. Anche nel caso della Crocifissione, un uomo, che si proclama Dio, è circondato da una folla che lo colpisce a morte, ricostituendo il proprio equilibrio intorno al suo corpo deriso e violato. Ma con la differenza rilevante che questa volta il racconto è condotto dal punto di vista della vittima.

Da quel momento, allorché sulle “cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” - è il titolo di un altro libro di Girard (Adelphi 1983) - si squarcia il velo, tutto è destinato a cambiare. Ciò non significa che la violenza sia finita. Anzi, una volta crollato l’ordine sacrificale, la minaccia che pesa sugli uomini si è ancora più estesa. Ma con essa si è estesa anche la consapevolezza dell’incantesimo che ci tiene prigionieri e dunque anche la possibilità di poterlo, un giorno, spezzare. Quella che Girard ha costruito è un’ipotesi che non pretende di essere positivamente verificata secondo un metodo scientifico. Ma che ha dalla sua non solo un singolare fascino, ma anche una potenza esplicativa difficilmente contestabile.

Oggi che il sapere va sempre più frantumandosi, la forza dell’opera di Girard è quella di una sintesi che riesce a conferire un significato unitario, anche se non tranquillizzan- te, all’intera storia umana. Più che contenerla, si può dire che questa sia contenuta dalla violenza di un desiderio mimetico che oppone fra loro gli uomini, tutti alla caccia delle medesime prede. L’unico modo per uscirne sarebbe quello di vincere quest’istinto, aprendoci alla logica cristiana dell’amore.

Certo, non sono poche le obiezioni che si possono rivolgere a questa straordinaria costruzione intellettuale. Da quella, di ordine storico, che la civiltà cristiana non ha certo prodotto un numero di vittime minore rispetto ad altre esperienze, a quella, di tipo teologico, che il sacrificio del Figlio resta da troppi punti di vista all’interno della logica del sacrificio.

Il presupposto del pensiero di Girard è che una forma di reale demitizzazione sia impossibile. Ciò che si può fare è rovesciare il mito, rintracciando nel suo fondo oscuro una diversa luce. Gli uomini sono troppo deboli per sopportare la vista della loro medesima realtà, senza provare in qualche modo a dimenticarla o a negarla. Un’opera come quella di Girard ci ha costretto a confrontarci con i tratti più enigmatici della nostra condizione.


Un diffidente che preferiva Don Chisciotte ai filosofi

di Roberto Calasso (la Repubblica, 06.11.2015)

Di René Girard si può dire che è stato l’ultimo dei grandi “ricci”, secondo la parola di Archiloco, su cui Isaiah Berlin ha intessuto una mirabile divagazione. Il “riccio”, a differenza della molteplice “volpe”, ha un’idea fondamentale, da cui trae un filo inesauribile di pensiero. Così Girard è stato capace di sviluppare un singolo pensiero - quello del “desiderio mimetico” - sino alle estreme conseguenze, coinvolgendo in successione alcuni grandi romanzieri dell’Ottocento, i Vangeli, Shakespeare, Clausewitz e toccando, fra l’uno e l’altro degli immani intervalli che separano questi continenti, una quantità di altri temi. Primo fra tutti quello che subito viene evocato dal suo nome: il capro espiatorio, su cui Girard ha scritto pagine che non si dimenticano.

Girard era un uomo roccioso, spigoloso, diffidente - con buone ragioni - sia della filosofia che dell’antropologia. Il vero terreno amato era per lui la letteratura, soprattutto quella dove l’intreccio è essenziale. Quindi il romanzo ottocentesco. Ma anche Shakespeare e Cervantes. Credo che Girard abbia detto, da qualche parte, che tutta la sua opera è nata da una copia del Don Chisciotte che leggeva da bambino.

Girard apparve sulla scena negli anni in cui fiorivano a Parigi, con eccessiva abbondanza, quelli che venivano definiti maîtres à penser. Fu un atto di alta saggezza, da parte sua, quello di fissare la sua base di vita negli Stati Uniti e non a Parigi. La sua fisiologia intellettuale lo rendeva piuttosto inadatto al clima ondivago degli ultimi decenni del secolo scorso. Così ebbe la fortuna di non essere mai veramente di moda.

Eppure la sua opera, se confrontata con quella di altri maîtres à penser, e petits maîtres à penser, che sono stati in voga negli stessi anni, ha la certezza di rimanere viva, perché Girard è uno di quei rari scrittori che, anche contrastandoli, si dovrebbe esser sempre felici di incontrare.


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