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In questo Granel di sabbia, il qual terra ha nome

LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO. IL "TESTAMENTO" DI GIACOMO LEOPARDI - a cura di Federico La Sala

E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce (Gv.: III, 19).
venerdì 27 settembre 2019 di Maria Paola Falchinelli
Giacomo Leopardi (Recanati 1798 - Napoli 1837) "filologo ammirato fuori d’Italia / scrittore di filosofia e di poesie altissimo / da paragonare solamente coi greci": cosi’ nella lapide dettata da Pietro Giordani ("perfetta", amava dire il nostro amico Annibale Scarpante, "a cui solo
aggiungeremmo: eroico combattente per la dignita’ umana,
fedele al vero e al giusto, amico della nonviolenza").
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” (...)

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> E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce (Gv.: III, 19). LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO. --- Pietro Citati, "Leopardi" (rec. di Giorgio Montefoschi - Leopardi, un uomo verso l’infinito)

giovedì 2 dicembre 2010

Leopardi, un uomo verso l’infinito

Il cuore, la mente, il corpo e il desiderio di andare oltre il limite

di Giorgio Montefoschi (Corriere della Sera, 01.12.2010)

Da sempre, in tutti i suoi libri sugli scrittori, Pietro Citati è stato il «secondo» poeta o il «secondo» romanziere: il lettore che - come pensava Leopardi - legge un testo quasi lo avesse scritto lui, aggiungendo quello che manca, integrando, rendendo manifesto quello che il testo stesso nasconde. In questo suo ultimo libro, Leopardi (Mondadori, pagine 437, € 22), dedicato al poeta di Recanati (un libro che tutti quelli che amano e conoscono Leopardi dovrebbero leggere per poterlo conoscere e amare di più), Citati, con una furia, una passione e una umile dedizione difficili da trovare nei nostri giorni distratti dalle non-vicende della letteratura, ha superato se stesso. Perché, all’interno di una situazione carceraria terribile (quante volte corre nelle sue pagine questo aggettivo!), è riuscito a creare, o a portare alla luce, o a muovere, quello che di regola succede nei romanzi d’avventura. E cioè: l’avventura. E l’epos.

Il carcere è quello in cui Leopardi ha trascorso la sua breve e disgraziata vita: la famiglia ossessiva, il mondo chiuso di Recanati (che Citati non esita a definire «la peggiore incarnazione del male»), la malattia devastante, la sciagura del proprio corpo deforme ridotto a essere, negli ultimi anni tormentati dalla cecità e dalla impossibilità di leggere, un «tronco che sente e pena». L’avventura non è altro che l’avventura della meravigliosa mente di Leopardi e del suo cuore: essendo, la mente, quella che lo sospinge nella inesausta costruzione di un sistema del pensiero che ha l’ambizione di comprendere il Tutto e il mistero; laddove il cuore è il riparo nel quale l’anima precipita e si rifugia, nutrendosi delle sue «molli e morbide sensazioni», dopo lo scacco dell’Infinito, il rifugio nel quale, dopo il Vuoto e il Nulla, riappare la memoria (dolorosa, poiché perduta anche quella).

C’è un qualcosa di veramente maestoso (come nell’epos) e di veramente «tremendo», in questo conflitto inesauribile e continuamente contraddetto che Citati descrive: nella Resurrezione che è negata dal pensiero e risorge nel cuore; nella impresa impossibile di cogliere almeno «una goccia di infinito puro, senza che nulla di estraneo la contamini» (una impresa, scrive Citati, simile a quella di uno che «cercasse di immaginare Dio al di fuori di ogni parola, di ogni tempo, di ogni eternità, di ogni numero: un punto fermo e invisibile nel cielo»); nella volontà caparbia (e inevitabilmente contraddittoria) di dare esistenza solo ed esclusivamente al Nulla; nell’odio furioso che il poeta indirizza a se stesso, nel desiderio di autodistruggersi e abbandonarsi all’unica quiete possibile che è la quiete della morte, e insieme nel perduto, inconsolabile rinascere alla vita: segnalata dal tocco di un orologio, dal chiarore di neve in una stanza.

Il carcere dell’esistenza terrena, in una natura - dalla quale l’Età dell’Oro è scomparsa per sempre - che all’uomo è soltanto nemica e lo fissa muta semmai, di lontano, non garantisce altro che distruzione, infelicità e morte. Lo sforzo prodigioso del pensiero che contempla lo spettacolo tragico dell’universo e delle singole vite, e nel medesimo tempo cerca l’Infinito, è destinato al fallimento e si risolve in un fallimento. Il cuore, rappresentato dagli ondeggiamenti dell’anima che, dallo scacco dell’Infinito, precipita nel tempo - un viso, il suono di una voce, il canto di un uccello - non conosce che illusioni.

Tuttavia, nessuno di questi tre elementi del dramma (il carcere della vita, la mente, il cuore) avrebbe quella potenza dinamica che letteralmente lo schiaccia nell’anima di chi legge, se non ci fosse un quarto elemento a chiudere in modo inesorabile la prigione. Questo elemento, per dirla in parole semplici, è il limite. Il vero agente di ogni dramma che si svolge sulla terra. Ed è il limite che ci impedisce di vedere e di sapere (poiché il «culmine di ogni sapere è il riconoscere l’inutilità della ragione e di ogni filosofia»); il limite del ricordo che non si fa presente; il limite che contiene ogni parola e però ci garantisce che al di là di ogni al di là esiste un altrove.


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