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In questo Granel di sabbia, il qual terra ha nome

LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO. IL "TESTAMENTO" DI GIACOMO LEOPARDI - a cura di Federico La Sala

E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce (Gv.: III, 19).
venerdì 27 settembre 2019 di Maria Paola Falchinelli
Giacomo Leopardi (Recanati 1798 - Napoli 1837) "filologo ammirato fuori d’Italia / scrittore di filosofia e di poesie altissimo / da paragonare solamente coi greci": cosi’ nella lapide dettata da Pietro Giordani ("perfetta", amava dire il nostro amico Annibale Scarpante, "a cui solo
aggiungeremmo: eroico combattente per la dignita’ umana,
fedele al vero e al giusto, amico della nonviolenza").
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” (...)

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> LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO. IL "TESTAMENTO" DI GIACOMO LEOPARDI ---- il terremoto di Lisbona del 1755. A causa della sua straordinaria potenza, pari al nono grado Richter, tra le devastazioni in Portogallo e nel Nord Africa, l’Europa tremò per sei interminabili minuti.

lunedì 14 marzo 2011

Alle radici del nostro pensiero la scossa che fermò l’Illuminismo

di Giuseppe Panissidi (Corriere della Sera, 14.03.2011)

Nel cuore pulsante della modernità, or sono due secoli e mezzo, un evento catastrofico innescò un movimento di pensiero e di coscienza che si situa alle radici vive della nostra contemporaneità: il terremoto di Lisbona del 1755. A causa della sua straordinaria potenza, pari al nono grado Richter, tra le devastazioni in Portogallo e nel Nord Africa, l’Europa tremò per sei interminabili minuti. E una straordinaria temperie spirituale, l’Illuminismo, d’un tratto si fermò, ripiegando su se stessa. A meditare intensamente e ripensare i suoi pur rigorosi paradigmi culturali, la sua stessa visione della storia e dell’uomo.

Quando migliaia di bambini muoiono sulla soglia della vita, gli uomini soffrono. E pensano. Il dibattito che si accese propone ancora domande di senso cui sarebbe difficile, oltre che insensato, sottrarsi. Classicamente, Jean-Jacques Rousseau non esita ad alzare la frusta contro la tracotanza e l’avidità degli uomini, i quali, da un lato, sfidano la natura attraverso un’ampia gamma di pratiche dissennate, come le costruzioni più ardite, destinate, presto o tardi, a rovinare su loro stessi; dall’altro, in caso di sisma, anziché cercare di mettersi subito in salvo, perdono tempo prezioso per salvare i loro averi. Eppure, secondo un emblema dell’eroismo e della gloria immortale, l’Achille omerico, «nulla vale (quanto) la vita» .

Di converso, Voltaire coglie l’opportunità storica per esaltare la dignità dell’uomo, la sua speciale capacità di elevarsi con il pensiero al di sopra di se stesso e di ogni sciagura, fino ad abbracciare il cosmo intero. Ogni responsabilità, pertanto, ricade sulla natura, che gli uomini purtroppo non possono interrogare perché muta. Sicché, contrariamente all’assunto di Leibniz, non vi sono «ragioni» per ogni cosa - «il naso non esiste per appoggiarvi gli occhiali» - in un mondo che non è «il migliore di quelli possibili» . Né punizioni divine: Candide è solo di fronte al silenzio di Dio. Ed ecco la mossa spiazzante di Rousseau: una morte prematura e «ingiusta» non è di per sé un disvalore, non è il «male», poiché può preservare da mali peggiori, i mali causati dagli uomini, i più difficili da comprendere e sopportare. Su questo terreno incrocia il percorso di Voltaire.

Il terremoto di Lisbona, invero, segna la fine di ogni ottimismo di maniera, le leopardiane «magnifiche sorti e progressive» e, nel contempo, l’alba del nostro disincanto, intriso di quella peculiare forma di realismo che Nietzsche, nella Nascita della tragedia (1872), chiamerà «pessimismo della forza» . Patente il rimando al sano e potente spirito vitale dei greci del V secolo, l’epoca delle tragedie, il cui «Sì!» alla Vita esprime la capacità di sostenere il pessimismo della tragedia, purificandosi - catarsi tragica- e attrezzandosi- pathei mathos: apprendimento mediante il dolore - di fronte alle «prevedibili imprevedibilità» della natura e della vita. Da qui anche il richiamo leopardiano alla necessità di realizzare un’istanza cooperativa interumana, un contro-movimento laterale e solidale, rispetto alla possibilità e al rischio dello «spaesamento» . E dell’annientamento.

Noi non abbiamo ancora l’esatta percezione della dimensione distruttiva del cataclisma in Giappone. E tuttavia le riflessioni meramente «tecniche» di queste ultime ore, impietosamente già tradiscono una radicale insufficienza e inadeguatezza: ri-scoperta della natura quale massima potenza, vulnerabilità della potenza tecnologica, analisi comparative condizionali (se fosse avvenuto da noi...), disquisizione sul tema della «prevedibilità» , controversia sul nucleare, «il terribile già accaduto» (Martin Heidegger), etc. Nell’oblio di un’elementare verità: credenti e non, ricchi e poveri, sani e malati, siamo ospiti (non sempre graditi), non signori del cosmo: enti naturali finiti e incompleti, fatti per (cercare di) conoscerlo e viverci nell’armonia possibile, affrancati da distopie di manipolazione e dominio, perseguite con lo scopo di «deviarne» con modalità improbabili e intrusive leggi e dinamiche. Se milioni di bambini nel mondo continuano a morire di stenti, ciò non è imputabile agli tsunami, ma a un legno storto che pretende di esibire le criticità del raddrizzamento come alibi per diventare sempre più marcio. Impunemente. Valga il vero: il marciume ci appartiene interamente, interpella e tradisce senza tregua la nostra tragica grandezza.

Con specifico riferimento al nostro angolo di mondo, il presidente della Cei ha recentemente evocato l’immagine del «disastro antropologico » e certamente alludeva anche alla nota varietà di psicodrammi. Come, vedi caso, il conflitto politica-giustizia. Dove, se il Novecento ci ha opportunamente istruiti, la vittoria della prima sulla seconda non può che tradursi in una sconfitta generale, non di questo o quel magistrato più o meno solerte. Bensì della civiltà, e di ogni pratica del rispetto: dell’idea profonda- da Cicerone a Montesquieu - del diritto e della legge come «mente» del corpo sociale e garanzia degli equilibri istituzionali. Nonché dello scopo prioritario di sostenere una comunità di condivisione sull’interpretazione dell’interesse collettivo di lungo termine della comunità civile e politica. Non sembra il modo migliore per celebrare il centocinquantesimo dell’Unità. Dopo, se e quando avremo adempiuto i nostri umanissimi doveri individuali e collettivi, morali e civili, avremo anche il diritto di imprecare contro i sismi. Non ora, non ancora, quando «la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza» (George Orwell, 1984). Soltanto dopo.


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