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In questo Granel di sabbia, il qual terra ha nome

LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO. IL "TESTAMENTO" DI GIACOMO LEOPARDI - a cura di Federico La Sala

E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce (Gv.: III, 19).
venerdì 27 settembre 2019 di Maria Paola Falchinelli
Giacomo Leopardi (Recanati 1798 - Napoli 1837) "filologo ammirato fuori d’Italia / scrittore di filosofia e di poesie altissimo / da paragonare solamente coi greci": cosi’ nella lapide dettata da Pietro Giordani ("perfetta", amava dire il nostro amico Annibale Scarpante, "a cui solo
aggiungeremmo: eroico combattente per la dignita’ umana,
fedele al vero e al giusto, amico della nonviolenza").
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” (...)

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> E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce (Gv.: III, 19).---- Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (di Giacomo Leopardi - I Canti, XXIII)

mercoledì 15 giugno 2011

CANTO NOTTURNO Dl UN PASTORE ERRANTE DELL’ ASIA

di Giacomo Leopardi (I Canti, XXIII)

-  Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
-  Silenziosa luna?
-  Sorgi la sera, e vai,
-  Contemplando i deserti; indi ti posi.
-  Ancor non sei tu paga
-  Di riandare i sempiterni calli?
-  Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
-  Di mirar queste valli?
-  Somiglia alla tua vita
-  La vita del pastore.
-  Sorge in sul primo albore
-  Move la greggia oltre pel campo, e vede
-  Greggi, fontane ed erbe;
-  Poi stanco si riposa in su la sera:
-  Altro mai non ispera.
-  Dimmi, o luna: a che vale
-  Al pastor la sua vita,
-  La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
-  Questo vagar mio breve,
-  Il tuo corso immortale?

-  Vecchierel bianco, infermo,
-  Mezzo vestito e scalzo,
-  Con gravissimo fascio in su le spalle,
-  Per montagna e per valle,
-  Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
-  Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
-  L’ora, e quando poi gela,
-  Corre via, corre, anela,
-  Varca torrenti e stagni,
-  Cade, risorge, e più e più s’affretta,
-  Senza posa o ristoro,
-  Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
-  Colà dove la via
-  E dove il tanto affaticar fu volto:
-  Abisso orrido, immenso,
-  Ov’ei precipitando, il tutto obblia.
-  Vergine luna, tale
-  E’ la vita mortale.

-  Nasce l’uomo a fatica,
-  Ed è rischio di morte il nascimento.
-  Prova pena e tormento
-  Per prima cosa; e in sul principio stesso
-  La madre e il genitore
-  Il prende a consolar dell’esser nato.
-  Poi che crescendo viene,
-  L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
-  Con atti e con parole
-  Studiasi fargli core,
-  E consolarlo dell’umano stato:
-  Altro ufficio più grato
-  Non si fa da parenti alla lor prole.
-  Ma perchè dare al sole,
-  Perchè reggere in vita
-  Chi poi di quella consolar convenga?
-  Se la vita è sventura,
-  Perchè da noi si dura?
-  Intatta luna, tale
-  E’ lo stato mortale.
-  Ma tu mortal non sei,
-  E forse del mio dir poco ti cale.

-  Pur tu, solinga, eterna peregrina,
-  Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
-  Questo viver terreno,
-  Il patir nostro, il sospirar, che sia;
-  Che sia questo morir, questo supremo
-  Scolorar del sembiante,
-  E perir dalla terra, e venir meno
-  Ad ogni usata, amante compagnia.
-  E tu certo comprendi
-  Il perchè delle cose, e vedi il frutto
-  Del mattin, della sera,
-  Del tacito, infinito andar del tempo.
-  Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
-  Rida la primavera,
-  A chi giovi l’ardore, e che procacci
-  Il verno co’ suoi ghiacci.
-  Mille cose sai tu, mille discopri,
-  Che son celate al semplice pastore.
-  Spesso quand’io ti miro
-  Star così muta in sul deserto piano,
-  Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
-  Ovver con la mia greggia
-  Seguirmi viaggiando a mano a mano;
-  E quando miro in cielo arder le stelle;
-  Dico fra me pensando:
-  A che tante facelle?
-  Che fa l’aria infinita, e quel profondo
-  Infinito Seren? che vuol dir questa
-  Solitudine immensa? ed io che sono?
-  Così meco ragiono: e della stanza
-  Smisurata e superba,
-  E dell’innumerabile famiglia;
-  Poi di tanto adoprar, di tanti moti
-  D’ogni celeste, ogni terrena cosa,
-  Girando senza posa,
-  Per tornar sempre là donde son mosse;
-  Uso alcuno, alcun frutto
-  Indovinar non so. Ma tu per certo,
-  Giovinetta immortal, conosci il tutto.
-  Questo io conosco e sento,
-  Che degli eterni giri,
-  Che dell’esser mio frale,
-  Qualche bene o contento
-  Avrà fors’altri; a me la vita è male.

-  O greggia mia che posi, oh te beata,
-  Che la miseria tua, credo, non sai!
-  Quanta invidia ti porto!
-  Non sol perchè d’affanno
-  Quasi libera vai;
-  Ch’ogni stento, ogni danno,
-  Ogni estremo timor subito scordi;
-  Ma più perchè giammai tedio non provi.
-  Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
-  Tu se’ queta e contenta;
-  E gran parte dell’anno
-  Senza noia consumi in quello stato.
-  Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
-  E un fastidio m’ingombra
-  La mente, ed uno spron quasi mi punge
-  Sì che, sedendo, più che mai son lunge
-  Da trovar pace o loco.
-  E pur nulla non bramo,
-  E non ho fino a qui cagion di pianto.
-  Quel che tu goda o quanto,
-  Non so già dir; ma fortunata sei.
-  Ed io godo ancor poco,
-  O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
-  Se tu parlar sapessi, io chiederei:
-  Dimmi: perchè giacendo
-  A bell’agio, ozioso,
-  S’appaga ogni animale;
-  Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?

-  Forse s’avess’io l’ale
-  Da volar su le nubi,
-  E noverar le stelle ad una ad una,
-  O come il tuono errar di giogo in giogo,
-  Più felice sarei, dolce mia greggia,
-  Più felice sarei, candida luna.
-  O forse erra dal vero,
-  Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
-  Forse in qual forma, in quale
-  Stato che sia, dentro covile o cuna,
-  E’ funesto a chi nasce il dì natale.


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