Si perde di vista il fatto che, come in Occidente, la filosofia giapponese è divisa in moltissime correnti contrapposte tra loro. Ci sono nelle cattedre giapponesi degli eminenti seguaci di Popper, di Wittgenstein, di Klossowski, di Kripke, di Rorty e di Russell: ci sono egregi studiosi della logica aristotelica e dell’epistemologia della scienza e via dicendo, i quali non parlano mai di ’pensiero giapponese’ perché il tema fu esausto molti decenni fa, e finì sotto le ceneri della seconda guerra mondiale. Quel stile di ragionare fu (ed è ancora) totalizzante, in quanto attribuiva a tutti i membri di una etnia lo stesso modo di comportarsi, rapportarsi e pensare. Abbiamo (o no?) imparato la stessa lezione da queste parti. Chi mira a pensare è tenuto a non nascondere i lineamenti di un approccio individuale dietro il modo con cui si confronta con un concetto. Quando un pensiero va spacciato per ’collettivo’ ((orientale o occidentale che si voglia) non si può sapere mai di chi è la responsabilità, da che contesto storico deriva. Riprende perciò un carattere etnico-trascendentale che rifiuta la possibilità stessa di dialogo perché privo di storicità.
I pensatori scelti per il volume recensito rappresentano un piccolo cenacolo di postmodernisti, Nietscheanetti riciclati, che si sono formati studiando le varie scuole francesi (Lacan, Foucault, Derrida et cetera). Parlano della giapponesità perché fa audience, è l’unico tema che riesce a attrarre un pubblico al di là dei confini delle varie torri d’avorio in cui questi programmi di studio si elaborano.
In un’epoca neo-totalizzante come la nostra. in cui il potere non si appoggia più sulle mobilizazzioni di masse, ma prospera nella frammentarietà di esse, l’idea dell’individuo già sociale fin dalla nascita promossa dai seguaci di Watsuji, (chi alla sua volta fu leale inserviente dell’ideologia imperialista giapponese), riprende vita, spacciandosi per un concetto ’orientale’ quando nei fatti fu adattato da Hegel. Tutto questo però ricalca tematiche oramai vecchie. Se si rivuole che torni in voga Giovanni Gentile, sarebbe meglio ripristinare la sua dottrina direttamente dalle fonti locali, invece di cercare una sponda lontana da cui far ripartire, mutatis mutandis, lo stesso concetto, ingarbugliato da idiomi in apparenza ’orientali’.
Cordialmente Peter Dale